Il mondo di Leonardo crolla a 17 anni. È lontano, assente, occhi persi nel vuoto, gli insegnanti lanciano distratte lamentele: «A volte non riusciamo a riconoscerlo, dal primo banco si è voluto spostare all’ultima fila, non parla con i compagni, alle interrogazioni viene impreparato». A casa pensano subito all’età. Diciassette anni, forse il primo amore, le prime delusioni. Invece Leonardo è andato via. Silenzioso e solo è scivolato nel baratro della sua malattia. Schizofrenia il verdetto dello psichiatra un anno dopo i primi sintomi. Subito dopo un tentato suicidio. «Quando ho sentito la diagnosi ho avuto come un’amnesia. Non riuscivo più a ricordare cosa volesse dire questa parola, ho dovuto cercarla sul dizionario». Tali Mattioli Corona è la sorella maggiore di Leonardo, non lo ha mai abbandonato, quando la mamma è morta nel ’90, lo ha portato a casa sua, è presidente nazionale dell’Aitsam, l’associazione che si occupa di malattie mentali. E ora racconta cosa significa vivere, giorno per giorno, accanto alla follia.
Chi è Leonardo?
«Un uomo di 54 anni che non è mai guarito dalla malattia peggiore, quella mentale. Intelligentissimo, trascorre le giornate studiando, conosce il greco, ha letto pagine e pagine sulla sua malattia. Si è iscritto a medicina perché voleva fare proprio lo psichiatra, anche se poi non ce l’ha fatta a finire gli studi».
Quali sono i sintomi di quando sta male?
«Sente voci, diventa paranoico, ossessivo, si chiude in camera e rifiuta di parlare».
Lui sa di essere malato?
«Solo quando sta bene riconosce la sua malattia. Durante le crisi invece si sente un perseguitato».
Avete mai avuto paura di lui?
«Per lui e di lui. Ogni giorno, ogni ora è un’incognita per noi, non sappiamo mai come sarà un minuto dopo. Avere paura non è però così scontato. È anche questo un percorso lungo, uno stato d’animo che va elaborato».
Cosa succede se la paura non viene elaborata?
«Diventa pericoloso per tutti. Alla famiglia che vive con un malato mentale viene richiesto uno sforzo sovrumano. Occorre imparare a calibrare le reazioni, misurare le parole, io tutt’ora, dopo 17 anni faccio ancora fatica».
Suo fratello ha mai subìto un trattamento sanitario obbligatorio?
«Tante volte. Troppe purtroppo. A volte, anche se è tremendo dirlo, non restano alternative. La richiesta parte dal medico di base, quando il paziente non accetta le cure. È una tortura per tutti. Per una mamma vedere portarsi via il proprio figlio legato, che urla e implora, è straziante. Quando poi torna a casa e dice “mi hanno picchiato“ non sai mai se credergli. È vero o è una delle sue tante ossessioni? È terribile».
Questa mancanza di fiducia, il credere o non credere, cosa significa per lui?
«Un tradimento. Il peggiore. Perché subentra la paranoia: sono gli altri ad essere cattivi, si sente perseguitato, spiazzato, umiliato. Una volta mi ha guardato e mi ha detto: «Perché mi fai portare via come un delinquente»? Mi si è fermato il cuore. Un dolore disumano. Durante queste violente crisi il malato non accetta e non riconosce la malattia. L’inconsapevolezza lo rende quindi insofferente alle cure e aggressivo di fronte ad un tentativo di forzarlo».
Gli aiuti dello Stato?
«C’è la pensione: 250 euro al mese».
Di cosa ha bisogno una buona sanità?
«Di persone. Mancano operatori, oltre ovviamente alle strutture, alloggi pensati per persone malate, dove ci sia assistenza. E poi informazione. Riconoscere i sintomi in tempo è fondamentale, come qualsiasi malattia».
E il medico di base?
«Diciamo che se ne lavano le mani.
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