È vestita di verde, i capelli sciolti. Amanda Knox entra in aula e vede il padre Kurt: sorride, prende coraggio e lo saluta, prontamente ricambiata. Kurt Knox prende posto in fondo alla Sala degli Affreschi. A differenza della figlia, non dispone di un traduttore: si arrangia come può, si appoggia agli avvocati, più che altro è sorretto dalle proprie convinzioni di genitore: «Vedrete - dice ai giornalisti - mia figlia è innocente».
Anche Raffaele Sollecito spiega che lui non ha niente a che fare con quella storia. L’aria da santone di qualche tempo fa è svanita: ha i capelli corti sugli occhiali, il maglione bianco a collo alto e tanta voglia di uscire da questa vicenda. È proprio lui, l’imputato Raffaele Sollecito, a monopolizzare una parte della seconda udienza del processo di Perugia. Chiede la parola senza preoccuparsi di Amanda, e comincia a parlare a ruota libera. Tecnicamente, le sue si chiamano dichiarazioni spontanee, in pratica sono le gambe su cui cammina la strategia messa a punto dai difensori, in primis da Giulia Bongiorno che vuole ridipingere con i colori dell’estraneità tutto l’ambiente in cui è maturato il delitto, sottraendolo al soffocante abbraccio della tecnologia messa in campo dalla Scientifica. «Mi ritengo vittima di un errore giudiziario - afferma Sollecito, ascoltato anche dallo zio e dalla seconda moglie del padre - io con questa situazione non c’entro nulla. Non conosco Rudy Guede», il terzo coimputato, già condannato, con il rito abbreviato, a trent’anni; «la relazione con Amanda era cominciata solo il 25 ottobre», dunque una settimana prima del delitto; «quanto a Meredith la conoscevo appena come coinquilina di Amanda». Insomma, Sollecito si tira, o almeno ci prova, fuori dall’angolo in cui è rimasto incastrato da coltelli, computer e Dna. Poi Raffaele, sempre stretto fra i suoi legali, prova a scacciare anche quelle immagini così inopportune passate e ripassate nei tg: 2 novembre 2007, lui e Amanda che si abbracciano e si baciano, suprema prova di incoscienza, nei minuti terribili in cui viene scoperto il corpo della povera Meredith: «Volevo rassicurare Amanda. Amanda era sconvolta, aveva freddo, io volevo tranquillizzarla e le ho anche passato il giubbotto».
Non basta: «Sono stato io - rivendica - a chiedere di entrare in casa all’ispettore Battistelli, che voleva solo il numero di telefono di una coinquilina di Amanda. Se avessi avuto qualcosa da nascondere, non l’avrei fatto. Non sarei stato così poco furbo da farmi trovare lì. E invece - rivela - sono stato il primo a dare un calcio alla porta di Mez perché era chiusa a chiave».
Ma l’ispettore Michele Battistelli la vede in un altro modo: «Amanda e Raffaele erano calmi, ma si capiva che erano imbarazzati dal nostro arrivo». E poi, avanti a seminare dubbi, Battistelli fa presente che la storia del presunto furto gli sembrò subito strana. Molto strana. Una simulazione. La finestra di una delle camere era rotta, «ma i vetri erano sopra i vestiti». Di solito succede il contrario: «I vetri dovrebbero essere sopra gli oggetti». E poi la polizia postale assesta un colpo che potrebbe essere molto duro per Raffaele: il suo pc rimase muto dalle 21.10 del 1° novembre alle 5.32 del giorno successivo. Una verità che fa a pugni con l’alibi di Raffaele che sostiene di essere rimasto davanti al suo computer proprio nell’ora critica dell’omicidio, fra le 22 e le 23.
Knox senior offre ancora i suoi baffi e il suo ottimismo alle telecamere: «Il sistema italiano è diverso da quello americano. Non ci sono elementi sufficienti. Certo come padre è difficile vedere una figlia in questa situazione».
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