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Solo il 28 per cento degli elettori di Beirut hanno votato nella giornata d’avvio delle prime elezioni libere in Libano dal 1972 L’astensione offusca il trionfo di Hariri Metà degli avversari del figlio dell’ex premier assassinato si erano da tempo ri

Gian Micalessin

da Beirut

Il più entusiasta, o forse l’unico, sembra Josè Ignacio Salafranca. Per il deputato spagnolo alla testa di un manipolo di 120 osservatori dell’Unione Europea la tornata elettorale apertasi alle sette di ieri mattina nella capitale è una vera «festa della democrazia». Ma la «fiesta» è solo fuori dai seggi, in quel carosello frastornante di autobus, pullman e altoparlanti a quattro ruote affittati per trascinare l’ultima strimpellata di propaganda fin alle porte dei seggi. Là dove s’arresta il lavorio delle truppe meccanizzate inizia quello della fanteria. Pattuglie di ragazzini con i colori delle varie consorterie occupano l’ultimo metro di marciapiede all’ingresso di ogni sezione elettorale. In questa mischia senza leggi si dispiega l’estrema caccia all’elettore, una lotta all’ultimo spintone per smollargli il foglietto dei candidati favoriti. Basta fare qualche passo, infilarlo nella bustina allungata dal presidente di seggio e la liturgia di questo voto bizzarro può dirsi compiuta.
Ma il vero problema di questa «ballata» affollata di orchestrali è la mancanza di ballerini. Quando alle sei di sera i presidenti ribaltano le urne, l’affluenza è inchiodata su un miserando 28 per cento. Un risultato non certo all’altezza di elezioni precedute dall’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri e dallo storico ritiro siriano. Lo spudorato mercato dei candidati, la rigidità di un sistema in cui l’energia dei voti nulla può contro lo strapotere delle alleanze e delle risorse economiche dei candidati ha convinto buona parte dei 420mila elettori di Beirut ad abbandonare i seggi per spiagge e piscine. A dimostrarlo ci sono i dati appuntati sui registri delle sezioni divise tra sciiti, sunniti e cristiani e ulteriormente ripartite tra uomini e donne. «Guardate qua - si stupisce Abu Kader Ahlak presidente della sezione 103 del quartiere Zkak El Blat riservata ai maschi sciiti - sono le tre del pomeriggio e hanno votato in 57 su 507... nel 2000 comandavano i siriani, ma c’era molta più gente». Ad Achrafiye, la roccaforte cristiana di Beirut, non va meglio. Alla sezione 161 si sono presentati in 130 su 585 e Samir, uno dei ragazzotti cristiani fermi agli ingressi, è certo di saperne il perché. «Cosa serve votare... già due settimane fa Solange Gemayel, la candidata maronita, ha costretto all’abbandono, d’accordo con Saad Hariri, tutti gli altri candidati cristiani... al massimo puoi votare per un musulmano, ma tanto lei vince lo stesso perché è il candidato unico».
La macchina da guerra messa in campo dal ricchissimo 35enne erede del primo ministro assassinato sembra alla fine rivoltarglisi contro. «Fate colazione e andate a votare», ripeteva da giorni il favoritissimo Saad nel timore di un astensionismo capace di trasformarlo in un re nudo. Ora quel miserabile 28 per certo gli pesa sulla sua testa come un maglio minaccioso, capace di far carne di porco d’una vittoria troppo scontata. Nella frenesia di stravincere Saad si era già assicurato da due settimane nove dei 19 seggi della capitale presentando candidati che nessuno ha, ieri, osato sfidare. Per i dieci seggi restanti anche lo spoglio dei voti destinato a prolungarsi fino a questa mattina sembra routine: già ieri sera i collaboratori di Hariri avevano annunciato la vittoria totale. Il perché te lo spiega senza giri di parole Rafiah, una 32enne madre di famiglia sciita in chador nero intenta a distribuire liste di Hezbollah davanti ai seggi del quartiere di Bshara Kouri. «Qui appoggiamo un nostro candidato inserito nelle liste di Hariri. In cambio domenica, quando si voterà al Sud, i nostri elettori faranno lo stesso con gli uomini di Hariri».
«Il voto di oggi è contro i criminali», ha detto ieri Saad Hariri uscendo dai seggi. Il giovane erede alludeva ai filosiriani vincitori delle precedenti elezioni, ma il suo non è stato uno slogan di gran successo.

Soprattutto tra gli elettori di una Beirut memore di quella recente mattina di marzo quando i suoi nuovi alleati Hezbollah riempirono il centro della città per dimostrare fedeltà agli occupanti di Damasco.

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