Solo 3 Comuni su 106 si mantengono da soli

La classifica finanziaria dei municipi: Belluno avanza soldi, Enna copre da sé un quarto delle spese. Il sindaco butta soldi nei sensi unici per cani

Solo 3 Comuni su 106 
si mantengono da soli

L’Italia dei campanili, degli 8.101 municipi e delle infinite sagre di paese aspetta, con un brivido d’ansia, il Federalismo. Da nord a sud, sindaci di ogni partito e credo politico torcono nervosi le fasce tricolori aspettando la rivoluzione fiscal-copernicana del governo e rimuginando mentalmente quanto Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, ha recentemente ribadito: «Non ci sarà uno che perde e uno che guadagna: guadagneranno tutti. Chi ci perderà sarà la cattiva politica». Parole che a molti primi cittadini e assessori saranno suonate come un j’accuse; perché chi più chi meno, tra le carte dei bilanci, tutti hanno qualche macchia che preferirebbero mantenere nascosta; come, per esempio, che le loro amministrazioni spendono più - in alcuni casi molto, molto di più - di quanto incassino dalle tasse.
Una ricerca dell’ufficio studi della Cgia di Mestre (associazione artigiani e piccole imprese) ha mappato l’Italia dei capoluoghi di provincia sulla base della differenza tra introiti fiscali propri e spesa corrente: in base all’elaborazione di dati Istat, risulta che solo tre città - Belluno, Biella e Forlì - sono finanziariamente autonome. I restanti 106 comuni sono tutti in perdita. Ma con differenze importanti.
A livello nazionale, il saldo negativo medio si assesta a un milione e 132mila euro. Ma, come spesso avviene in Italia, le medie significano poco o nulla. «L’indagine lascia spazio a pochi dubbi - ha sottolineato Giuseppe Bertolussi, presidente della Cgia - ancora una volta si definiscono nettamente i confini tra Nord e Sud del Paese. Una situazione di vera emergenza quella delle amministrazioni locali del Mezzogiorno che, allo stato attuale, sono ben lontane da una situazione di autonomia finanziaria». Se infatti al Nord troviamo, oltre alle tre virtuose che riescono a coprire oltre il 100 per cento delle spese comunali, numerose amministrazioni che mettono a bilancio entrate superiori all’80 per cento delle spese, al sud in molti casi il tasso di copertura crolla vertiginosamente sotto il 50 per cento, fino al caso limite di Enna, dove il comune spende quattro volte di più di quanto ricavi dalle imposte. Seguono Catania (41,6 per cento di copertura), Messina (41,9 per cento) e Caltanissetta (43,6).
«Il Federalismo è cosa troppo seria e grave, visto che in ballo ci sono l’economia del Paese e delle famiglie, per una politica dei semplici annunci», ha recentemente denunciato Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione normativa, contestando i calcoli che molti centri di studio hanno azzardato sui futuri effetti del provvedimento, e sottolineando che a tutt’oggi «il testo della riforma è in mano di sole sei persone». Il ministro ha, ovviamente, ragione. Nessuno può sapere gli effetti di un provvedimento ancora sconosciuto. Ciononostante, se è vero che il federalismo porterà una maggiore autonomia economica della amministrazioni locali, è difficile pensare che i comuni di regioni come la Campania non dovranno affrontare gravi difficoltà. Qui infatti il saldo negativo dei comuni è mediamente di 2 milioni e 723mila euro; non va meglio in Puglia, dove le entrate fiscali dei comuni sono inferiori mediamente di 2 milioni e 518 mila euro. Anche in Basilicata gli assessori ai bilanci hanno pesanti difficoltà nel far quadrare i conti, visto che ogni anno devono far fronte a spese superiori di un milione e 301 mila euro rispetto agli introiti, mentre in Calabria questo dato raggiunge il milione e 188mila euro.

Se il Sud piange, il Nord non ride, anche se la situazione è mediamente migliore: qui si va dai 364mila euro di saldo negativo per ciascun capoluogo piemontese ai 127mila euro dei dodici capoluoghi di provincia lombardi.

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