Solo il Colle può impedire il tramonto dell’italiano

Se c’era bisogno di uno schiaffo forte e plateale per renderci conto di che cosa significhi aver trascurato per decenni la valorizzazione della lingua italiana in Europa, eccolo, e sia benvenuto. Ma dopo averlo preso e appreso dal sito che si dedica alla politica estera dell’Unione, e che ha pensato bene di celebrare i cinquant’anni del Trattato di Roma in inglese, in francese, persino in tedesco e in spagnolo ma non in italiano, è il momento di agire. Intendiamoci, agire se le istituzioni della così maltrattata Repubblica italiana considerano importante investire sul futuro di una lingua, la propria, che ha più di mille anni di memoria scritta e documentata alle spalle. Che è lingua ufficiale di quattro Stati nel Vecchio Continente. Che è in uso per più di settanta milioni di cittadini nel globo. E soprattutto che sarebbe capace di mettere in comunicazione tra loro duecento milioni di persone sparse nei cinque Continenti, ossia il bacino potenziale di italofoni, italianisti, italici - chiamateli come diavolo volete - i quali considerano l’Italia il loro punto di riferimento per storia, geografia, affetti familiari, politica, economia o stile di vita, secondo gli studi che si sono cimentati in materia.
Se le nostre istituzioni comprenderanno che tutelare in modo moderno la lingua italiana non è solo un dovere dell’Italia, ma è soprattutto un diritto del mondo, allora sarà più facile ridicolizzare il tentativo di far fuori la lingua di Dante - e della Ferrari, e di Cannavaro, e di Benedetto XVI - da parte dell’Unione europea; quasi che essa fosse un simpatico dialetto del Mediterraneo, magari per cultori dell’arte o appassionati di musica lirica. Per fortuna c’è anche questo, c’è anche l’amore culturale che la lingua italiana sa trasmettere in tanti stranieri, anche per la bellezza della sua melodia e per il fascino del Paese che «evoca». Ma come hanno osservato il commissario europeo, Franco Frattini, e l’ambasciatore a Bruxelles, Rocco Cangelosi, nella loro protesta fin troppo educata con i nuovi soloni e ignorantoni d’Europa, l’italiano è la lingua di una delle comunità linguistiche più diffuse nel pianeta: ottanta milioni di «oriundi» italiani distribuiti solamente in undici tra i maggiori Paesi, dal Canada all’Argentina. E nel complesso sono ben trentanove, dalla piccola Malta agli immensi Stati Uniti, le nazioni che hanno un legame con la lingua italiana.
Basterebbe che le nostre istituzioni fossero consapevoli, semplicemente consapevoli del tesoro che hanno a disposizione in Italia e nel mondo, per indurre i sapienti somari d’Europa a riconoscere alla nostra lingua il ruolo che dovrebbe avere da tempo: quello di una delle cinque lingue «di lavoro» nell’Unione, accanto all’inglese e al francese. E senza alcun complesso per i riconoscimenti del tedesco e dello spagnolo, che pure non hanno argomenti più convincenti per essere inclusi tra le lingue ufficiali «di procedura» a scapito del solo italiano. Se infatti si usa il criterio della madrelingua più diffusa nel Continente, dopo il tedesco succede che l’inglese, il francese e l’italiano abbiano lo stesso numero di parlanti. Se invece si ricorre alla diffusione planetaria che premierebbe lo spagnolo, l’italiano è più diffuso del tedesco fuori dalle rispettive aree geografiche. Se, infine, si fanno valere motivi politici, l’italiano è la lingua di uno dei Paesi fondatori dell’Europa, oltre che dei quattro con l’economia più prospera.
Ma per far valere queste e molte altre ragioni, bisogna avere un’istituzione che si occupi in modo permanente della «politica della lingua» al di là dei governi che passano (proprio come accade in Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna). E sapere che valorizzare la lingua italiana è un bene per l’umanità, prima ancora che un prezioso patrimonio di identità nazionale. Sia il Quirinale, allora, a dare un segnale in questo senso. Per attribuzioni e durata di mandato è il luogo ideale per ispirare e coordinare l’iniziativa. Lo faccia, coinvolgendo quella quantità e qualità di personalità italiane e soprattutto straniere che coltivano per la lingua di Dante un interesse ben più vivo di quello dimostrato dalla politica della prima Repubblica, e i cui risultati si vedono, purtroppo, all’orizzonte della seconda (o siamo già nella terza?).
f.

guiglia@tiscali.it

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