Solo un errore dei repubblicani ora può fare rivincere Obama

Il 2012 è oggi. Si vota ancora. Due anni sono tanti o pochi solo a seconda delle prospettive. Adesso a Barack Obama devono sembrare già agli sgoccioli. Perché gli sembrerà di avere poco tempo e poco spazio. Perché ha già cominciato a pensare a quella data con una cartina geografica di fronte: se invece di guardare a come è stato sconfitto nel midterm guarda al dove si deve sentire già lontano dalla Casa Bianca. Le elezioni di metà mandato le hanno perse molti presidenti e poi diversi di loro si sono ripresi (...)
(...) l’America. Lui scuote la mappa elettorale e capisce che soltanto i repubblicani possono riconsegnargli il Paese: il presidente e il suo partito hanno perso Florida, Ohio, Pennsylvania, Missouri. I quattro Stati che sono sempre decisivi alle elezioni presidenziali. Quattro Stati in bilico ogni quattro anni: il mondo si ferma a turno a Tallahassee o in una contea sperduta vicino a Columbus. Gli inviati di tutto il globo arrivano e ci raccontano quanto sia incredibile la politica del Paese più potente della Terra che si decide in un seggio rurale e sgarrupato di un villaggio che non c’entra nulla con Washington, New York, Los Angeles e tutto il resto. Ecco, quell’America da cui le presidenziali pendono e dipendono adesso è in mano ai repubblicani: ce l’aveva Obama, nel 2008. Il presidente vinse sotto il sole di Miami e sotto la neve di Cleveland. Vinse a St. Louis e nelle fabbriche dismesse intorno a Pittsburgh. C’è da giurare che avrebbe preferito vedere passare ai repubblicani un seggio della California o la poltrona di governatore di New York. Sarebbe stata una figuraccia momentanea e stop. Poi alle presidenziali quei posti sono bastioni saldi, solide certezze di qualunque candidato democratico. Quei quattro Stati no. Vederli finire agli avversari significa sapere che riconquistarli sarà difficile e probabilmente non dipenderà da se stessi. Questo è accaduto, adesso: uno, due, tre, quattro, come quando sul computer trascini in una cartella tutte le icone contemporaneamente e spariscono. La scheda elettorale di quei posti ha cambiato bandiera in un giorno. Un elefante al posto di un asino. Una «x» sul simbolo dei partiti che vale per il presente e forse sul futuro. Perché chi ha in mano questi quattro Stati può anche dimenticarsi del resto: si prende le chiavi della Casa Bianca ed entra dal portone principale.
Oggi è già domani, allora. Perché il midterm conta, ma fino a un certo punto. La battaglia è un’altra: l’obiettivo è la presidenza. Due anni sono mezzo mandato e sono già una campagna elettorale permanente ed effettiva. Nel risiko degli Stati, i repubblicani hanno piazzato i loro carri armati nelle trincee chiave. Hanno i dadi, hanno il tavolo, hanno le carte. Gli manca un candidato credibile, perché quello ancora non c’è. C’è Sarah Palin che corre ininterrottamente dal 2008; torna in pista Mitt Romney, sconfitto alle primarie due anni fa da John McCain; si parla di Newt Gingrich, l’uomo che nel 1994 fu il simbolo del successo repubblicano alle elezioni di midterm della prima presidenza Clinton. Girano nomi, si cercano i soldi, si pianifica la battaglia. Ventiquattro mesi possono essere pochi, molti o troppi anche qui. Le prospettive fanno lo stesso scherzo che capita al presidente. Obama può contare su se stesso e pregare che gli altri sperperino il trionfo di queste ore. I repubblicani, invece, giocano praticamente solo contro se stessi: il rischio è dissipare un patrimonio politico arrivato ieri attraverso le urne. È già successo e può accadere ancora. C’è proprio il precedente del 1994 a dirlo: Gingrich e il suo contratto con l’America diedero ai conservatori il Campidoglio e quindi il Paese, poi crollarono restituendo tutto a Clinton. È lo spauracchio, quello. È l’avvertimento: controllare il Congresso e tenere in pugno gli Stati chiave non è sufficiente se non trovi un volto, una storia e un programma da contrapporre a un candidato tosto come era allora Clinton e come sarà nel 2012 Obama. L’ha scritto David Brooks sul New York Times: «Per non disperdere il successo i repubblicani devono trovare meno estasi e più realismo». Allora i prossimi due anni saranno una caccia continua alla persona giusta. Seguendo la logica di Brooks è intuitivo che adesso si faccia spazio Marco Rubio, il nuovo senatore della Florida che a 39 anni molti vedono come l’alternativa conservatrice a Obama: è ispanico, è telegenico, è pragmatico, sintetizza le richieste estreme del popolo Tea party con i modi più soft dell’elettorato moderato o indipendente.
Rubio prenderebbe i voti dei Latinos che nel 2008 finirono a Obama e garantirebbe il patrimonio prezioso della Florida. Perché si torna sempre lì: a quei quattro Stati che non vogliono dire niente e vogliono dire tutto.

È una partita a scacchi, dove la scacchiera è un Paese. Per vincere servono le mosse giuste, non piacere di più in tutti i posti. Sbagliare quelle mosse è l’incubo dei repubblicani. Ora e nei prossimi mesi. Ed è la speranza che ha Obama per riprendersi se stesso.

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