da Milano
È mancato il fascino della maglia numero dieci. Un peccato per due squadre come Francia e Italia che nell’album delle figurine hanno messo Zidane e Platini, Rivera e Antognoni, Baggio e Totti. Ed hanno nell’animo la genia dei numero dieci. Ma questo è il calcio che non ti fa sognare più, soltanto correre. Ed allora guardi l’Italia e vedi il fantastico dieci sulle spalle di De Rossi, che forse avrà il fisico ma non il piede. Guardi la Francia e il signor «10» se ne sta in panchina e non è nemmeno un piede di fata, ma solo il piede ruvido di Govou che sa far gol, quando li fa.
Laggiù giocano ma tu pensi agli altri. Certo. Zidane, testa o non testata, ti faceva passare un’ora e mezza con la voglia di guardare e attendere quel colpo che faceva magia e talvolta invidia. Vedi De Rossi e concordi che sarà pure il figlioccio del Pupone, romano e testa dura come lui quando si tratta di baciar la maglia in giallorosso, ma «un cucchiaio» qui, un affresco là, Totti ha dentro altra classe, altro calcio, altra seta. Non sarà stato il «dieci» della veronica, perchè quella era arte di Rivera, ma di tanto in tanto proponeva una calcistica rima baciata.
Invece ieri sera era tutto un pigia pigia, balletto di corsari ed assaltatori. Gattuso sembrava un All Black, ma non toccava a lui il calcio-delizia. Vieira gestiva gioco e pacchetto di mischia francese correndo poco, come un antico centromediano metodista: inesorabile muraglia umana per chi provasse a passare. Aveva addosso la maglia numero quattro, ma nella sostanza, e nell’intimo, è l’esemplare tipico del numero dieci del calcio moderno e muscolare. Come De Rossi? Direte. Vero, ma il nostro era un muretto, facile da sbriciolare, talvolta pericoloso per i suoi, più che per gli avversari. Bel puledrino, capelli di un marines visto nei film americani, tanta voglia di correre, lottare e magari segnare. Ma poi?
Cambia la scena. Dici: Del Piero ha portato quella maglia. Dov’è finito il magico piede, quello che ti concedeva il brivido di una punizione? Sarà già andato in pensione. Oggi quel sette dice poco, talvolta niente vedendo il suo modo di giocare. Partita senza raffinatezze tanto da far venir nostalgia di uomini rudi e puri: Nesta, Materazzi, Trezegol, tanto per citare. Gli altri, quelli sul campo si sono lasciati trascinare, nel cuore, da quel «Vincerò!» che la voce di Pavarotti e il coro del pubblico di San Siro hanno fatto riecheggiare. Tutti pronti per un calcio da battaglia che non sempre è il calcio che ti fa vincere. Tutti a seguir traiettorie da stelle filanti, nessuno capace di parlare col pallone, di carezzarlo, di addomesticarlo per qualcosa che, alla fine, rendesse prodezza la delicatezza. Per il vero, in campo, c’era e c’è stato uno così bravo da rilassarti ed esaltarti con un tocco, di metter palla per tagliare l’aria e l’area e sguinzagliare la fantasia. Aveva addosso il numero di quello che fu re ed oggi è ricordo. Numero ventuno: pensi a Paolo Rossi e leggi Andrea Pirlo. Alla fine lui, e solo lui, ha conciliato umori e sapori fra quelli di noi, che stavamo lassù sulle tribune, magari appollaiati e magari imbarbariti dal grezzo. Ma con la voglia di calcio ancien regime (anche francese). Il calcio raffinato è come la lama dello spadista, la punta del fioretto, vedi sempre quando tocca: è uno squarcio che s’apre nell’aria. Ieri sera volevamo vedere più calcio che corsa e Pirlo ci ha servito il piatto: una palla verticale, poi un lancio sulle fasce, tocco morbido quasi senza guardare quando si trattava di appoggiare, palle secche quando era necessario evitare l’intervento di un avversario, scavalcare la Bastiglia francese con l’immediata essenzialità di un Rivera o un Corso, Antognoni o Baggio, insomma gente dal piede dolce e la capacità di ragionare al volo.
Vero, il nostro non sarà un cervellone, non avrà viso e sorriso da attore cinematografico, ma con la palla al piede sa dire ciò che vuole: languidi sorrisi e morbide carezze.
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