Solo tre parole: piazze, tribunali e ostruzionismi

di Vittorio Macioce

Piazza, tribunali e ostruzionismo. La formula in fondo è tutta qui. Si può stare una vita a parlare di democrazia, diritti, crisi, lavoro, inflazione, stipendi bassi, famiglie che non arrivano alla fine del mese, ma poi tutta la politica di questa magnifica opposizione si riduce a tre parole. È quello che nel calcio una volta si chiamava catenaccio. La politica della marcatura a uomo.
Qualche dio si diverte a ingabbiare l’Italia in un pantano di melma e chiacchiere. Pensateci. Ci vuole grande fantasia per trasformare delle banali elezioni regionali in un pasticciaccio brutto. Il Pdl si incarta sulle liste. I giudici tagliano fuori dal Lazio e dalla Lombardia il partito di maggioranza. Tutti sanno che, al di là della forma, questa storia non ha senso. Cosa fai, non permetti a buona parte degli italiani di votare? Non si può. Quando ancora si ragionava lo avevano ammesso anche Bersani e Di Pietro. Berlusconi e Napolitano pensano a un decreto interpretativo per uscire da questa situazione. E qui accade di tutto. Di Pietro parla di golpe e scomunica il Quirinale. Il Pd si accoda ma urla: Tonino non toccare Napolitano. Il Tar diventa l’arbitro dei destini democratici. Il popolo viola finalmente sfoga i suoi istinti viscerali e va in piazza. Esiste per questo. È la sua ragione sociale, la prova ontologica della propria esistenza. Tutto torna così all’unico e solo motivo di scontro politico. Il filo rosso che lega quindici anni di storia italiana: eliminare Silvio Berlusconi. Con il voto? No, con qualsiasi mezzo. È inutile illudersi, tutto il resto non conta. È da qui che arrivano piazze, tribunali e ostruzionismo.
Il guaio è che tutti e tre non sono i termini classici di una politica democratica. Sono altro. Sono eccezioni. La piazza come abitudine, i tribunali come metronomo, l’ostruzionismo come boicottaggio. È strano. La sinistra si mette spesso la giacca di custode della Costituzione, ma usa strumenti che servono a delegittimare proprio il Parlamento, l’architrave della res publica. È questa la triste verità. Qui da tempo il classico confronto democratico è una presa in giro. Una parte politica non riconosce all’altra la legittimità a esistere. Non è una questione di voti. Non è un problema elettorale. Berlusconi deve sparire perché è il male. Ormai da questo punto di vista non c’è più mediazione. Si è arrivati al punto di non ritorno. Ed è proprio quello che teme, e temeva, Napolitano. Ogni scelta del presidente della Repubblica è il disperato tentativo di evitare lo scontro frontale.
Quanto costa il catenaccio dell’opposizione? Tanto, davvero tanto. Ha ibernato tutto, perfino la crisi. Questo è un paese immobile. Dove tutti parlano di futuro, ma con lo sguardo rivolto al passato. La speranza, o l’illusione, della classe dirigente del Pd è tornare al 1994, chiudere in una parentesi il berlusconismo e ricominciare da capo. È chiaramente una follia umana e politica, ma ha finito per condizionare il dna della sinistra, la sua cultura, i suoi orizzonti, la sua visione del mondo. Questa è una sinistra che da quasi vent’anni non produce nulla di nuovo ed è impermeabile a tutto. Clinton, Blair, Obama? Qui non sono mai arrivati. Erano maschere disegnate dai veltroniani. Avatar senza sostanza.
Sabato saranno tutti in piazza del Popolo. Benediranno il Tar del Lazio e brinderanno all’ultimo pasticcio degli uomini del Cavaliere. Ma la sostanza non cambia. Questa è una sinistra vintage. È un mercatino dell’usato, che sa di muffa e robivecchi. Basta ascoltare le parole: resistenza, comitato di liberazione nazionale, Aventino. È il vocabolario di un gruppo di nostalgici che ha sbagliato film.
Piazza, tribunali e ostruzionismo.

La prossima volta tanto vale vedersi tutti in piazzale Clodio. Nel nome del palazzo di giustizia e di quel Clodio, fratello della Lesbia di Catullo, che nell’antica Roma fu il simbolo del populismo sguaiato e aristocratico.

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