«Soluzione finale» Al Vaticano giunse una mezza verità

Uno studio sottolinea le lacune nelle relazioni del nunzio a Berlino

Che cosa sapeva esattamente la Santa Sede sulla sorte degli ebrei dopo la decisione dei carnefici nazisti di compiere l’ignobile «soluzione finale»? Risponde anche a questa domanda il corposo volume scritto da Alessandro Duce, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Parma, intitolato La Santa Sede e la questione ebraica (1933-1945), pubblicato dalle Edizioni Studium (pagg. 430, euro 39) che ricostruisce sulla base dei documenti d’archivio l’intero periodo che va dal concordato con la Germania alla fine del secondo conflitto mondiale. Il libro è stato presentato ieri a Roma nella sede dell’Associazione stampa estera.
Grazie a una lettura attenta delle carte (disponibili nella monumentale ma poco visitata raccolta contenuta negli undici volumi degli Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale) e al confronto con le altre fonti, come le raccolte di documenti diplomatici italiani, Duce offre una ricostruzione obiettiva e completa del problema. Si apprende così, ad esempio, che il 9 dicembre 1942 (vale a dire undici mesi dopo la decisione della «soluzione finale», presa da Hitler nel gennaio di quell’anno) l’allora uditore della nunziatura di Berlino, Giuseppe Di Meglio, invia in Vaticano un lungo e dettagliato rapporto sulla situazione degli ebrei, che rappresenta il primo testo così circostanziato giunto nei sacri palazzi.
Vi si legge che i nazisti intendono attuare «la progressiva purificazione della Germania dal sangue semita» e si forniscono per la prima volta le cifre riguardanti gli israeliti presenti in Germania e nei Paesi occupati dalle truppe del Reich, cioè «oltre quattro milioni, un quarto di tutta la popolazione ebraica mondiale». Di Meglio elenca le principali misure adottate contro gli ebrei, come l’istituzione dei ghetti in alcuni quartieri delle città (si citano tra i più importanti quelli di Lodz e Varsavia) e cita gli immensi campi di concentramento dove essi conducono una vita durissima: «Viene dato loro poco cibo; sono sottoposti a un lavoro molto pesante: cause tutte che ben presto conducono molti alla morte». «Si dice - continua il monsignore - che tali campi di concentramento siano finora sorti in Polonia, il che lascia pensare che le regioni orientali, particolarmente la Polonia, siano state, nei disegni del Governo germanico, stabilite come luogo definitivo di residenza per le popolazioni ebraiche dell’Europa. In genere, per non richiamare troppo l’attenzione della popolazione, essi sono obbligati a partire nel cuore della notte; possono portare seco pochissimi indumenti personali ed una somma di danaro lievissima».
Colpisce, nel leggere la relazione segreta inviata dalla nunziatura di Berlino al cardinale Luigi Maglione, Segretario di Stato di Pio XII, il fatto che la deportazione e la riunione degli ebrei nei ghetti e nei campi di concentramento, pur attuate brutalmente e affiancate da eliminazioni, siano però considerate strumenti per la creazione di un nuovo insediamento ebraico nell’Est della Polonia: non c’è affatto la percezione che esse siano invece finalizzate allo sterminio di massa. «Stupisce che la nunziatura di Berlino ignori un dato di questa importanza», scrive Duce, dato che «dai documenti diplomatici italiani, dalle notizie di diverse fonti tedesche e dei Paesi occupati è ormai trapelata e conosciuta in tutta la sua drammaticità la conclusione delle concentrazioni e delle deportazioni: esse sono finalizzate all’eliminazione fisica delle comunità ebraiche».
È altrettanto vero però che se la nunziatura di Berlino avesse raccolto informazioni e testimonianze sulla «soluzione finale», le avrebbe certamente comunicate in Vaticano, com’era suo dovere fare in un rapporto così dettagliato. Anche a seguito di questa comunicazione, Pio XII, nel radiomessaggio di Natale del 1942, parlerà delle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate a morte o ad un progressivo deperimento». L’uso della parola «stirpe», nelle intenzioni del Papa, è un richiamo diretto alla tragedia del popolo ebraico. Il New York Times, nell’editoriale del 25 dicembre che accompagna la pubblicazione del messaggio, scriverà: «Quando una eminente personalità, che dovrebbe aver funzione di arbitro tra i due campi...

accusa l’espulsione e la persecuzione di uomini sottoposti a simili trattamenti soltanto perché appartengono a un’altra razza... allora questo giudizio imparziale assume la risonanza di un verdetto della Corte Suprema». Ma riservatamente gli Alleati faranno sapere a Pacelli che avrebbero desiderato una condanna più esplicita e diretta.

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