Politica

Somalia, Ruanda e poi Bosnia quanti fallimenti targati Onu

Tragico bilancio: 2.285 militari morti, di cui 258 soltanto in Libano

Fausto Biloslavo

I poveri caschi blu ammanettati ai ponti della Bosnia serba, che i caccia della Nato avrebbero dovuto bombardare, erano la triste immagine del fallimento dell’Onu nel sanguinoso dissolvimento della Jugoslavia. Due soldati olandesi, «prigionieri» dei serbi, mostrati al giornalista come trofei di caccia mi chiesero di avvisare le famiglie che stavano bene, ma nel loro sguardo si leggeva tutta la disfatta della missione Unprofor in Bosnia.
Il generale Ratko Mladic aveva ridicolizzato le Nazioni Unite prendendo in ostaggio i suoi soldati. Pochi mesi dopo, la sceneggiata si trasformò in tragedia proprio sotto gli occhi dei caschi blu olandesi, che avrebbero dovuto difendere le enclave musulmane di Srebrenica e Zepa, dichiarate «aree sicure» dal Palazzo di Vetro.
Ottomila persone, compresi vecchi e bambini, furono sbrigativamente passate per le armi dai tagliagole serbi e gettate in fosse comuni. Un video mostra Mladic, oggi ricercato dal Tribunale dell’Aia per i crimini di guerra e noto come il «boia di Srebrenica», che stringe la mano, brinda e dà pacche sulle spalle agli ufficiali dei caschi blu olandesi, poco armati e in numero esiguo per poter reagire.
Dal 1948 le Nazioni Unite hanno attuato 60 missioni di pace, 15 delle quali sono tuttora operative. I caschi blu impiegati sul campo sono 72.724, provenienti da 109 Paesi, e per i prossimi dodici mesi le missioni costeranno 4,75 miliardi di dollari. Fino a oggi per riportare la pace sono morti 2.285 caschi blu, ma spesso il loro sacrificio è stato vano. Ben 258 uomini, oltre il 10% del totale, sono caduti nella missione Unifil nel sud del Libano, a ridosso del confine israeliano. Un intervento che dura da 28 anni, ma si è dimostrato del tutto inutile per fermare provocazioni e attacchi da una parte e dall’altra.
Nei libri di storia e sulla coscienza dell’Onu, oltre a Srebrenica, resterà il genocidio in Ruanda, avvenuto sotto gli occhi impotenti dei caschi blu della missione Unamir. Nel 1994 un disperato contingente era asserragliato a Kigali, la capitale del Ruanda. All’esterno la maggioranza hutu al potere sterminò in pochi mesi 800mila tutsi, la cui guerriglia si stava avvicinando alla capitale. Chi scrive fornì le mappe di alcune fosse comuni contenenti 20mila civili tutsi, molti sepolti vivi, ai caschi blu, che ringraziarono e ammisero a denti stretti «di non poter fare niente». Una dozzina di paracadutisti belgi che avevano tentato di difendere una personalità politica tutsi furono scannati come bestie per le strade di Kigali. Il responsabile delle operazioni di pace in Africa era l’attuale segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, che in seguito chiese perdono per non aver saputo evitare il genocidio.
Purtroppo in Africa la storia rischia di ripetersi, con il massacro annunciato del Darfur, la regione occidentale del Sudan dove, secondo diverse organizzazioni umanitarie internazionali, una guerra etnica ha già provocato 400mila morti e due milioni di profughi. In questo caso si tratta di un intervento mancato, nonostante il governo di Khartoum stia preparando un’altra ondata di pulizia etnica in Darfur. L’Onu e gli americani hanno evitato con attenzione di usare la parola genocidio, perché farebbe scattare automaticamente l’intervento.
L’Africa è la bestia nera delle Nazioni Unite, tenendo conto che anche la missione di pacificazione in Congo, al momento la più consistente, con 17.500 uomini, traballa a causa dei recenti scontri tra gli armati del primo e secondo classificato alle elezioni presidenziali del 30 luglio. Non solo: il Palazzo di Vetro ha dovuto aprire un’inchiesta sullo sfruttamento della prostituzione minorile che coinvolge i caschi blu in Congo.
Anche la missione di osservatori al confine fra Etiopia ed Eritrea, che dovrebbe garantire il rispetto della tregua dopo la dura guerra del 2000, rischia di trovarsi tra due fuochi. I rapporti tra Asmara e Addis Abeba sono sempre più tesi a causa della grave situazione in Somalia.
Non a caso l’intervento dell’Onu in Somalia, agli inizi degli anni ’90, è stato uno dei peggiori disastri dei caschi blu. L’Unosom scattò nel 1992 con uno sbarco dei marines a Mogadiscio, davanti alle telecamere della Cnn. L’obiettivo iniziale era la consegna di aiuti umanitari, ma poi la missione fu ampliata con l’idea di disarmare i signori della guerra e rifondare lo Stato somalo sprofondato nel caos. L’ammiraglio americano Howe, capo del contingente di caschi blu, di cui faceva parte anche l’Italia, era stato soprannominato a Mogadiscio «Animal Howe» per i suoi ripetuti errori.
Gli osservatori Onu sono in prima linea, da oltre mezzo secolo, nel conflitto tra India e Pakistan per il territorio conteso del Kashmir. Purtroppo la missione Unmogip non è servita a fermare le guerre del 1965 e del 1971 fra i due Paesi, e tantomeno i combattimenti che nel 1999 rischiarono di far scoppiare un conflitto nucleare regionale. Per non parlare delle infiltrazioni dei combattenti della guerra santa in Kashmir, aizzati da Osama Bin Laden, che hanno provocato almeno 40mila morti.
Ad altre latitudini le operazioni Onu non sono andate meglio. Il Palazzo di Vetro ha inaugurato l’intervento ad Haiti nel 1993, ma ci sono voluti due sbarchi dei marine americani per salvare la missione Onu. Dopo le elezioni dello scorso febbraio la situazione si dovrebbe stabilizzare, ma sull’isola ci sono ancora 7.998 caschi blu.
A Timor Est le Nazioni Unite sponsorizzarono un referendum sull’autodeterminazione nel 1999, ma la vittoria dei «sì» provocò una brutale campagna di violenze orchestrate dall’Indonesia, che costrinse i funzionari dell’Onu a barricarsi nei loro alloggi. Quattromila civili furono uccisi prima dell’indipendenza di Timor Est nel 2002, e solo l’intervento armato degli australiani e di altri Paesi, tra cui l’Italia, riuscì a fermare la mattanza.
Il problema è che la nuova nazione è ancora sconvolta dagli ammutinamenti delle neonate forze armate e da lotte di potere, che hanno costretto gli australiani a intervenire di nuovo tre mesi fa.

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