da Milano
Il latitante se ne sta sprofondato nella poltrona di un bar del centro di Milano, e gira e stropiccia tra le mani il mandato di cattura. «Il nome è il mio, il cognome il mio, la data di nascita anche. Ma per il resto è come se si parlasse di un’altra persona. Io non sono un razzista. Mai stato. Non ho mai picchiato nessuno. Anzi, le botte le ho prese, e tante. E quando ho chiesto giustizia mi hanno spiegato che non c’era niente da fare».
Dieci giorni fa, la notizia fa il giro d’Italia. A Milano una banda di italiani dava la caccia agli immigrati filippini: agguati, pestaggi, minacce, «senza alcuna plausibile ragione che non fosse la discriminazione razziale». Tutto nella zona di piazza Prealpi, periferia nord. Quattro ragazzi sui vent’anni finiscono agli arresti domiciliari, dodici minorenni vengono indagati a piede libero. Mandato di cattura in carcere, invece, per il vecchio del gruppo, l’unico adulto, quello che nei racconti delle vittime «era uno dei più agitati e mi impediva di parlare e mi diceva che siccome siamo filippini di merda dobbiamo tornare nel nostro paese... non sono nemmeno riuscito a rispondere che mi ha dato un pugno sulla nuca». Il picchiatore - difeso dall’avvocato Marco De Giorgio - si chiama Giorgio Pignoli, ha una pizzeria in zona e sfugge alla cattura perché il giorno della retata è in vacanza a Sharm-el-Sheikh. Da allora è latitante. Ma la sua la fuga sta per finire.
Adesso cosa farà, Pignoli?
«Tra qualche ora mi vado a costituire, che altro posso fare. Ero in Egitto con mia moglie e mio figlio per le nozze d’argento e mi chiamano da Milano dei parenti: guarda che sono venuti i carabinieri a cercarti. Non ci credevo».
Eppure pare che in piazza Prealpi ne accadessero di tutti i colori. Cose indegne di una democrazia, ha detto il procuratore aggiunto Spataro.
«Io in zona ci sono arrivato che ero un bambino di dodici anni, e di cose da matti ne ho sempre viste accadere tante. C’erano i boss, la droga, le sparatorie. Ma io mi sono sempre fatto i fatti miei e ho campato tranquillo».
Poi sono arrivati gli stranieri.
«È iniziato tutto cinque o sei anni fa. Prima pochi, poi sempre di più. Filippini e sudamericani, e il quartiere un po’ alla volta ha cambiato faccia. Si sono impadroniti dei giardinetti. Si ubriacano, fanno a botte, a volte usano il coltello. Quando la mattina scendo a portare il cane trovo le montagne di bottiglie rotte».
Non è un buon motivo per organizzare squadracce punitive.
«Ma, mio Dio, io non ho organizzato proprio nulla! Ho un filippino che lavora con me, gli amici di mio figlio sono filippini, vengono a casa mia a fare i dischi di hip hop. Insomma, con quelli bravi non ho nulla da dire. Ma il problema di piazza Prealpi è che lo Stato è come se non esistesse. L’antefatto di tutta questa storia è che io un giorno le ho prese di santa ragione. Passo vicino ai giardinetti di via dei Frassini e vedo dei filippini che stanno massacrando di botte il fratello di un ragazzo che lavorava da me a consegnare le pizze a domicilio. Mi sono messo di mezzo e quelli hanno menato anche me. Non la finivano più. Mi davano i caschi delle moto sulla testa. Sono finito al pronto soccorso».
Poteva denunciarli.
«Volevo farlo. Ma mi hanno spiegato che non sarebbe successo nulla, che tra qualche anno un giudice di pace al massimo avrebbe inflitto loro una multa e tutto si chiudeva così. Insomma, mi hanno detto che io, come italiano, a casa mia, posso solo subire».
E ha pensato bene di farsi giustizia da solo.
«Ma quando mai. Un giorno sono ripassato dai giardini, ho visto i filippini, li ho riconosciuti e ho avvisato il fratello del ragazzo picchiato. L’ho fatto perché, se voleva, potesse denunciarli. Invece lui ha chiamato i suoi amici e ne è nata una rissa gigantesca. Ma io non ho istigato nessuno».
Peccato che a picchiare ci fosse anche suo figlio.
«Nicola era disperato per il fatto che mi avessero picchiato.
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