Stefano Zurlo
da Milano
Lincontro avviene nellinfermeria di San Vittore, il carcere in cui lhanno rinchiusa. Pierluigi Mantini, deputato della Margherita, viene fatto accomodare in una stanza con due letti. Lei, la mamma che ha affogato il suo bambino, è lì, in quellambiente protetto e sorvegliatissimo. In una specie di isolamento. Affranta, prostrata, distrutta. «Ha pianto - spiega Mantini - per tutto il tempo del colloquio e mi ha rivolto solo parole che esprimevano disperazione». Maria Patrizio non è in grado di reggere un discorso intero; solo lacrime e spezzoni di frasi che parlano di morte: «Voglio morire, voglio uccidermi, non posso stare senza Mirko». Lo ripete fra i singhiozzi allonorevole che è venuto a San Vittore con la Commissione carceri della Camera per una visita, teoricamente, di routine. «Avevamo programmato a fine maggio un giro nelle carceri lombarde, così siamo arrivati a San Vittore». Dove Mantini si è trovato davanti a questa storia pesante come un macigno. Un macigno che potrebbe schiacciare la mamma.
Maria non accenna alla sua responsabilità, non aggiunge nulla a quel che ha detto agli investigatori, non confessa. Come fosse un fratello, si rivolge a Mantini per buttargli al collo quel pensiero che la tormenta: «Mirko non cè più»; taglia quindi con le parole, come fossero forbici, il futuro, il suo: «Voglio morire, mi ucciderò, voglio farla finita».
Poi, ancora le lacrime, incontenibili. Mantini si guarda intorno, preoccupato; dialoga con il personale del carcere, la rincuora, la sprona. Sa che i dottori hanno un compito difficilissimo. Difenderla dai clamori del mondo, vigilare perché lei non vada alla deriva verso qualche gesto estremo. «Mi hanno spiegato - afferma il parlamentare - che non la lasceranno dormire da sola, unaltra persona riposerà con lei, i controlli sono continui, discreti ma inflessibili».
Un fatto è certo: finita questa emergenza, conclusi gli interrogatori, spiegato, fin dovè possibile spiegare, quel che è accaduto, Maria dovrà trovare unaltra collocazione. Linfermeria o la cella di San Vittore, almeno secondo Mantini, non sono la sede adatta per restituirla alla vita: «Spero che la scarcerino al più presto, che studino per lei una terapia adeguata, che psichiatri e medici laiutino a non sprofondare».
La donna ammiccante e vanitosa che lottava per uscire dalla mediocrità noiosa e proiettarsi nella luccicante vetrina della tv, non cè più.
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