Caro Milos sei ancora vivo? Hai visto i tennisti vincitori rasarsi le chiome, cantare le vecchie canzoni? Tu Milos mi racconteresti di tuo padre. O dei bisnonni di quei tennisti in trionfo. Mi racconteresti dei bratonje, dei barbuti di Draza Mihalilovic, dei cetnici pronti a morire per re Alessandro. Di tutti quelli che in famiglia giuravano di non tagliarsi la barba fino al ritorno del sovrano. Con quella lana sulle gote avete ucciso. E vi siete fatti uccidere. Dalla seconda guerra mondiale fino al Kosovo. Strana, pazza storia quella della tua gente, Milos. La storia di un popolo grande e nefasto, sempre in bilico tra allori e rovina.
Il revolver nero è ancora sulla mia scrivania. Era tuo. Perdonami: della tua famiglia. Con quello il tuo bisnonno inseguiva i turchi. E tuo padre sparava a titini e tedeschi. Tu no. Avevi il kalashnikov, quattro bombe alla cintura, una cassa di munizioni. Era quel che ti restava. Assieme a quattro amici, uno zaino e la mimetica blu con la croce cetnica. Ti ricordi? Era il 18 giugno 1999, la Nato era arrivata in Kosovo, ma tu non te ne volevi andare. Te ne stavi a Belo Polje, quattro case aggrappate alla montagna a due chilometri da Pec. Le tue case. La tua Patria. Il nemico, «gli zingari del Kosovo» come dicevi, era ad un passo. E tu te ne fregavi. «Siamo rimasti soli, ma non importa – brontolavi –. Gli uomini vivono e muoiono, ma non importa, l’importante è far quel che è giusto. Il resto non conta. Jivili, Jivili». La rakia bruciava le gole, poi tornava il silenzio. In quel silenzio mi ritrovai tra le mani il pistolone nero. «Giornalista, fratello taliansko, questa pistola ha sparato per la Serbia, non può andare in mano ai gipsy portatelo via». Quattro ore dopo loro sono alla tua porta, sgozzano tuo nipote. Tu non t’arrendi. Sei una furia con il kalashnikov in mano. Spari all’impazzata scompari nei campo. Me lo ricordo come se fosse ieri.
Sei vivo? Ti sei goduto la gioia della Belgrade Arena, di Novak Djokovic, di Victor Troicki, dei tennisti moschettieri che urlano «uno per tutti tutti per uno» mentre l’orgoglio serbo invade il mondo, i cori l’assordano e le tre dita alzate inneggiano alla santa trinità di «Dio Patria famiglia». La famiglia, il tuo assillo. Ora lo ripete anche Djokovic il tennista trionfatore. «La famiglia è la cosa più importante, quella che non devi mai tradire». La stessa ossessione di Vuk il mercenario di «Migrazioni», il romanzo epopea di Milos Crnjanski sul popolo serbo. Un popolo capace di bruciarsi e rinascere dalle proprie ceneri, di disegnare l’orrore e ricamarlo con l’ironia grottesca di Emir Kusturica, il regista serbo per adozione, il folle della macchina da presa nato musulmano di Sarajevo e diventato serbo per ispirazione. E tra quei ricami risplendono gli occhi inebrianti di Milla Jovovich. Anche lì una storia di famiglie e di migrazioni. Un padre inseguito dai titini in fuga da un villaggio del Kosovo poco distante dal tuo. Milla da Kiev sbarca a Hollywood, occupa la prima copertina a 11 anni per poi sbandare in un’inquietudine perenne tra cinema, canzoni e moda.
Sempre in fuga, sempre con quel male di famiglia. Quel male che tu Milos chiamavi la nostra serbità. Un’inquietudine fatta di malinconia funesta e rabbie oltraggiose. Una nenia silente lacerata dall’ira dei violini Goran Bregovic. Nella musica ora prepotente ora mesta del compositore serbo più famoso sgambetta gente come Dejan Stankovic o Milos Krasic, l’astro nascente del calcio arrivato a ridestare la Juventus, ma già accusato di «serbità» da qualche commentatore. E che sarà mai questa serbità? Sarà quella del criminale di guerra Karadzic capace dopo aver tessuto l’elegia dell’odio e dello sterminio di trasformarsi in santone e paranoterapeuta beffando per anni i segugi del tribunale internazionale. O quella di Nikolas Tesla lo scienziato fenomeno, capace di contendere a Marconi i brevetti sulla radio e vendere all’America bizzarri progetti di macchine volanti e raggi della morte. Un genio sregolatezza, un autentico figlio della Serbia morto povero e folle dopo una vita di geniali intuizioni e devastanti ossessioni.
Caro Milos se ti sei salvato torna a raccontarmi la tua serbità. Ti restituirò la pistola, ti chiederò se conoscevi Dusan Popov. Era serbo pure lui e lo chiamavano Triciclo per quel vezzo di portarsi a letto almeno due donne. Ma più dei suoi vezzi contavano i suoi messaggi cifrati. Con quelli Londra scoprì i segreti dei nazisti.
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