«Sono psichiatra, ma mezzo matto»

nostro inviato a Verona

Parla di sofferenza, anche la sua, ma sorride. Non è credente, ma ha appena scritto un libro sui preti. E si fa intervistare, «ma non per narcisismo». Perché «a me interessano solo i miei matti» dice Vittorino Andreoli. È nato quasi settant’anni fa a Verona. Nella sua città ancora vive e fa il suo mestiere, lo psichiatra.
Usa una parola tabù: «matti». Perché?
«La amo molto. Oggi si parla di malato di mente o disturbato psichico. Matto è un termine popolare e insieme letterario: Il fu Mattia Pascal di Pirandello allude alla mattìa, la follia. Dopo tanti anni io stesso mi considero mezzo psichiatra e mezzo matto. Certo è un termine desueto».
Eppure nel quotidiano la follia sembra un pregio...
«È vero. Per far dispetto una persona basta dirgli: “Lei è veramente normale”. La follia sembra allontanare dalla monotonia, dalla banalità».
Allora anche la follia del mondo è solo un’immagine abusata?
«No. Ha un fondamento scientifico. Per il mio concittadino Cesare Lombroso la follia era dentro di noi, una degenerazione del cervello. Quindi il folle andava analizzato come una statua. Oggi si è scoperto che ogni disturbo mentale risente dell’ambiente. Così si parla di follia della città, del mondo, dei rapporti umani».
E tutta questa follia colpisce per primi i giovani?
«I ragazzi crescono non nella stabilità, ma nel consumo dei sentimenti. E diventano “contro” per principio: è il problema dell’adolescente eroe».
Però le paure, i conflitti esistono da sempre...
«Certo. La paura è un meccanismo di difesa. Ma ci sono gradi di paura che ci paralizzano e in quel momento un genitore dev’essere lì, pronto ad aiutare il figlio».
E i genitori non ci sono?
«Brecht dice: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Perché tutti sono piccoli protagonisti. Ma gli adolescenti oggi sono considerati problemi inutili, anzi, dei rompicoglioni».
Così alla fine la paura determina la loro vita?
«Ci sono due modi di reagire alla paura: la fuga o l’aggressione. Se hai paura e chiami la mamma, lei ti rassicura. Ma se sei da solo allora la paura diventa terrore, distruzione. Ho imparato una cosa: se vuoi capire la violenza devi prima sapere che cosa sia la paura».
Non è una giustificazione?
«Ho seguito tantissime perizie. Tutti i ragazzi, anche quelli che avevano ucciso, dopo cinque minuti di colloquio scoppiavano a piangere».
Anche Pietro Maso?
«Maso era più grande. Ha capito fino in fondo quello che ha fatto dopo cinque o sei anni. Prima era l’“eroe”, c’erano perfino i fan club».
E lei che gira fra tante paure altrui, in questo modo anestetizza anche le sue?
«È così. Se sono riuscito a essere utile in qualche modo ai miei matti è stato per la mia fragilità, la mia paura, il mio senso del limite. Per curare i folli devi partecipare, comprendere. Sono psichiatra da 50 anni: ma ho bisogno dei miei matti».
È entrato in manicomio per la prima volta nel ’59, alla fine del liceo. E ha deciso di fare lo psichiatra. Quindi in qualche modo quel luogo le è piaciuto: com’è possibile?
«È uno dei drammi della psichiatria e della mia vita. Quando Basaglia ha proposto la definizione di manicomio come luogo di detenzione e violenza sono stato d’accordo. E non ho mai accettato di partecipare a un comitato etico: uno che si è occupato di un manicomio per tanti anni non ne ha diritto».
Ma perché per decenni è sembrato normale a tutti?
«È stato come se a un certo punto ci avessero tolto una ragnatela dagli occhi. Eppure eravamo tutti raffinati, studiavamo la fenomenologia, leggevamo Ungaretti. Poi la scienza è cambiata, si è scoperto che la follia non è solo negativa, che anche lo schizofrenico più grave può esprimere una creatività».
Chiudere i manicomi all’improvviso fu un errore?
«Sì. Ma esiste una terza via della psichiatria: studiare la persona all’interno dell’ambiente».
E serve un luogo per farlo?
«C’è bisogno di luoghi di trattamento, non di custodia, di medio periodo, almeno fino a sei mesi. Solo che dirlo è ancora tabù».
È vero che era secchione?
«Mi vergogno ancora... Ho ridato un esame, dermatologia, perché avevo preso 29».
Da giovane era un patito della ragione. Dopo tanti anni la ama ancora così tanto?
«No, no. Ora sono l’uomo dei sentimenti. L’affettività dà risposte immediate. Se uno mi dice che è terrorizzato non gli spiego che cos’è la paura, gli tengo la mano».
Se lo dice uno scienziato...
«Sono stato un ricercatore del cervello per molti anni. Ho lavorato a Cambridge e Harvard».
È vero che ha lasciato Harvard per amore?
«Dopo un anno come visiting professor, mi dissero che c’era un posto. Mia moglie la prese così: “Sono contenta per te, ma io e le mie figlie torniamo a casa”. Così sono rientrato al paesello, dai miei matti».
E si è pentito?
«Non credo ai pentimenti».
Non dica che non si pente di qualcosa...
«Solo di non aver fatto di più. È il mio dolore più grande: ricevo decine di richieste a settimana, non posso aiutare tutti».
Ha detto: «Uno psichiatra è infelice, oppure è un imbecille». È infelice?
«Sì. Molto. Se uno psichiatra è felice non ha capito la follia, una maschera del dolore ancora misteriosa».
Però sorride. Un po’ di ottimismo?
«Sono un pessimista attivo: fare, fare, lavorare. Do fiducia agli altri. Potrei perfino sembrare ottimista».
Scrive anche moltissimi libri. Come mai?
«Vorrei aiutare più persone possibili. È la mia piccola utopia. E poi serve anche a me».
È narcisista?
«No, in quel caso non li scriverei. Mi curerei. Mi serve per approfondire».
Ma gli psichiatri si curano da soli? O è una leggenda?
«No. Ho curato molti psichiatri. E anche molti preti».
È sicuro di non essere narcisista?
«Sì. E poi il mio sarebbe un narcisismo pietistico: parlerei solo dei miei limiti».
Sempre secchione?
«Già. Fregato dal dovere. E conosco il senso di colpa».
Rifarebbe lo psichiatra?
«Assolutamente sì. Amo l’uomo “rotto”».
Ma com’è lo psichiatra oggi?
«Frammentato.

Ha bisogno di tanti collaboratori: lo specialista, lo psicologo, il sociologo, la famiglia e la comunità. È un piccolo direttore d’orchestra».
Un’impresa...
«L’ortopedico ti sistema un dito, lo psichiatra è quel folle che pensa di cambiare l’uomo, la sua esistenza. Non può non essere difficile».

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