"Sono un'artigiana del lusso. Ma contro lo stress faccio torte"

La vicepresidente di Confindustria: "Facevo l'avvocato, poi ho scoperto i gioielli. Il made in Italy? Se ognuno fa da sé non andremo lontano"

"Sono un'artigiana del lusso. Ma contro lo stress faccio torte"

Quello di Licia Mattioli è uno dei nomi chiave del Made in Italy. Lo incarna nel doppio ruolo di imprenditrice, a capo dell'omonima maison di gioielli, e di vice-presidente di Confindustria con delega all'internazionalizzazione. Aveva 28 anni quando con il padre Luciano decise di rilevare l'Antica Ditta Marchisio, laboratorio torinese specializzato nella creazione e lavorazione manuale di oreficeria di alta gamma. Nel 2013 ha seguito la cessione al colosso del lusso Richemont quindi il lancio della Mattioli Spa che dell'Antica Ditta ha conservato nonché innovato il nucleo originale di artigiani trattenendo, inoltre, lo storico punzone 1TO, il primo rilasciato dalla città di Torino. Optare per uno spinoff è stata una scelta vincente. Sono due le anime che compongono l'azienda, impegnata nella produzione per il proprio brand e in quella per i più grandi marchi di gioielleria. Quali? Top secret: «Sono i più prestigiosi», glissa la signora.

Lei promuove l'Italia all'estero grazie al suo ruolo in Confindustria. Siamo migliorati nel comunicare chi siamo?

«Da tre anni possiamo finalmente parlare di un nuovo corso. Abbiamo iniziato a muoverci come sistema Paese, creando un'asse tra il governo ed enti pubblici come Ice, Sace Simest e naturalmente Confindustria. Tutti uniti per internazionalizzare il Made in Italy, perché da soli si va veloci ma insieme molto più lontano».

Quanto più lontano?

«Rispetto all'anno precedente, la crescita dell'export è stata pari all'8%, abbiamo dunque fatto meglio di Francia e Germania, non in termini di valore assoluto ovviamente. Vorrei che si continuasse in questa direzione anche con il nuovo governo, anzi dobbiamo fare ancora di più».

La parola chiave è sempre «fare sistema»?

«Non si può più ragionare in termini di piccoli imprenditori. Che tra l'altro stanno comunque cambiando le logiche d'azione. Siamo sulla strada giusta».

All'estero come viene percepito il Made in Italy?

«È un valore unico, spesso è più riconosciuto e apprezzato dagli stranieri che da noi stessi. Dici Italia e il consumatore pensa a un prodotto di grande valore, diverso. Nel caso specifico dei gioielli, disponiamo di un saper fare che deriva da Cellini, si va indietro di 500 anni. Regaliamo un pezzo d'Italia quando vendiamo un gioiello. Il consumatore sa che quel prodotto è stato fatto da mani che hanno una tradizione e da occhi che hanno visto bellezza».

La Mattioli Spa è stata creata a sua immagine e somiglianza. Non è stata una scelta rischiosa?

«Lo ammetto, c'è tanto di me. Ma anche di papà. Quando la rilevammo, l'idea chiara era portare nel mondo artigianale criteri aziendali. Una scelta che inizialmente venne letta come folle, le logiche industriali sembravano inconciliabili con quelle dell'artigianato. Invece è stata questa la chiave di volta: la capacità di innovazione di processo e prodotto. Ciò lo devo a mio padre, all'epoca manager in Pirelli, quindi con profonda esperienza dei processi industriali».

E continuerete ad espandervi?

«In realtà, abbiamo già fatto investimenti importanti, anche grazie alle normative 4.0, e in particolare al super-ammortamento. Speriamo che tutte queste riforme vengano mantenute perché hanno dato grande impulso alla nostra industria».

Per i non addetti ai lavori, cosa comporta l'aver trattenuto il punzone 1TO?

«È il marchio di fabbrica, e 1 vuol dire che è il più antico rilasciato da Torino, venne forgiato nel 1860. Ogni azienda ha un punzone: quando muore un'azienda, muore anche il suo punzone. In Italia i marchi 1 sono dunque pochissimi».

Va sempre d'accordo con papà?

«Abbiamo un rapporto fantastico. Durante gli anni in Pirelli, si tratteneva spesso all'estero, quindi non è che lo vedessi molto. In questi due ultimi decenni lavoriamo molto assieme, tanto e bene».

Cosa non scontata, i rapporti professionali genitori-figli sono spesso conflittuali.

«Ho colleghi con padri imprenditori presentissimi. Papà, invece, da subito volle concedermi libertà d'azione, compresa la libertà di sbagliare».

Tanto per smentire lo stereotipo della figlia unica iper-protetta.

«Esatto».

Identikit di suo padre...

«Da un lato è molto elastico e ricettivo, dall'altro non impone le sue idee ma crea comunque le condizioni per farti notare che sono vincenti, così finisci per cambiare traiettoria. Di lui ammiro l'estrema coerenza e correttezza».

In cosa siete simili?

«Entrambi cerchiamo di evitare lo scontro prediligendo il dialogo e il confronto. Siamo poi fondamentalmente flessibili».

Ama definirsi imprenditrice mediterranea. Che significa?

«Che nelle creazioni i colori e il calore sono mediterranei. I nostri sono gioielli versatili, per una donna mediterranea, calda e creativa».

In azienda qual è il valore aggiunto di una donna?

«Così come accade in famiglia, dove la donna spesso ha un ruolo di mediatrice, anche in azienda le donne riescono a mantenere gli equilibri per via dell'attitudine a trovare la mediazione. Penso che l'ideale stia nel coniugare presenza femminile e maschile, Marte e Venere. Credo nella complementarietà».

È sposata e madre di due figli. Smentisce lo stereotipo della donna italiana immolata alla famiglia e poco interessata al successo nel lavoro.

«C'è però del vero in questo stereotipo. In Italia si fa ancora troppo poco per aiutare le mamme a dedicarsi alla professione. Non sono ancora sufficienti gli strumenti che possono aiutare le donne a risolvere i problemi della quotidianità. Si parte dal sistema degli asili. Altri Paesi gestiscono meglio tutto questo. È un nostro limite».

Chi sono le donne imprenditrici italiane che apprezza?

«Sicuramente Emma Marcegaglia».

A proposito di famiglia. Vede già i suoi figli in azienda?

«Ancora presto per dirlo, Gregorio ha 16 anni e Gea 19».

Studiano all'estero?

«No, a Torino. Era un'ipotesi valutata con mia figlia quando ha finito la scuola superiore. Lei ritiene che le nostre università non abbiano nulla da invidiare alle straniere. Ed è rimasta, è poi molto legata a questo Paese».

Mamma pugliese, papà napoletano, marito di Cuneo. È nata a Napoli, ma è cresciuta a Torino, dove risiede. Lei cosa si sente?

«Sento di avere tante anime, ma proprio per questo mi sento genuinamente italiana».

Ma ci sarà pure un aspetto prevalente. È quello nordico o latino?

«Sicuramente quello latino, poi ho una certa propensione per l'ordine che mi fa più nordica. E ciò che più conta, sono innamorata della mia città, Torino».

Quando le cose non vanno per il verso giusto come si sfoga?

«Cucino, soprattutto torte. E più sono nervosa, più faccio torte».

Sta cucinando parecchio ultimamente?

«No. Ma in passato ho sfornato tanti dolci».

Altre strategie per combattere i momenti difficili?

«Trovo particolarmente terapeutico stare in famiglia».

Dicono che sia una lavoratrice indefessa.

«Mai ferma un minuto, è vero. Ogni momento è buono per lavorare. E sa dove rendo di più? In aereo. Lì, indisturbata, senza telefono, mi concentro a meraviglia».

Ma lo trova uno spazio per le vacanze?

«Irrinunciabile. Arrivo a un punto in cui sento di dover ricaricare e batterie».

Che idea s'è fatta del movimento #Metoo?

«Come tante altre cose, è nato per una giustissima causa, poi, per dirla in gergo sciistico, ha derapato. Il problema c'è, e va affrontato. Però va gestito con criterio, vanno fatti dei distinguo».

Per esempio?

«Un complimento non è una molestia. Ora stiamo cadendo nell'esatto opposto. Siamo all'estremo».

A proposito di derapata e gergo sciistico...

«Sta per chiedermi se scio? Un tempo sì, adesso un po' per mancanza di tempo un po' perché tutti gli amici si sono fatti male, e la cosa mi spaventa, ho messo gli sci al chiodo».

Giornata tipo di Licia Mattioli

«Non c'è. Ogni giorno, nel bene o nel male, è diverso. Mediamente due giorni alla settimana sono fuori Torino, in viaggio. Per il resto, in ufficio, sommersa da telefonate, riunioni. Dati i diversi incarichi e ruoli, devo continuamente cambiare argomento, cosa che mi risulta sempre più difficile».

Quali sono le fasi lavorative che più l'appassionano?

«Mi piace moltissimo la produzione. Mi sono innamorata dell'azienda partendo proprio da lì. È interessante seguire tutti i passaggi che portano il lingotto, e ancor prima il disegno in 3D, a trasformarsi in gioiello. Quando mio padre mi coinvolse nell'Antica Ditta Marchisio, passai mesi a scoprire le vecchie collezioni, i disegni, a toccare i prodotti, iniziai così ad amarli e a scoprire l'anima dell'azienda. Poi scesi in produzione e capì come si facevano. Ne rimasi affascinata, mi innamorai così del corpo. In quel momento decisi di lasciare tutto ed entrare in azienda».

In che condizioni era?

«In una fase involutiva, i proprietari erano anziani. Ma era chiaro che si trattava di un'azienda storica, con una tradizione importante».

Nella sua precedente vita, quand'era una giovane avvocatessa, che rapporto aveva coi gioielli?

«Li ho sempre amati. Da piccola mi divertivo a fare gioielli con le perline, poi li vendevo. Esprimevo così la mia creatività. Poi le strade mi hanno portato altrove. Ho sempre apprezzato il gioiello sia come ornamento sia come testimone di momenti importanti della vita. Tuttora indosso l'anello di fidanzamento, un gioiello con cui ho un legame molto forte. Ho poi sempre collezionato gioielli antichi».

E dal passato trae ispirazione?

«Le nostre collezioni hanno sempre una storia da raccontare. In genere nascono da una storia o un'esperienza da me vissuta. Penso all'anello che abbiamo chiamato Tibet, si ispira a un mio viaggio. Scoprii che alle ragazze prossime al matrimonio, le mamme regalano un filo che si arrotola attorno al dito, i diversi giri inneggiano agli anni di felicità matrimoniale. Pensai di trasporre tutto questo e farne un omaggio alle donne».

Trova il tempo per leggere?

«Adoro i gialli, i thriller in generale. In questi giorni sto leggendo Tutto è in frantumi e danza, è sulla globalizzazione».

Si ritiene una persona fortunata?

«Direi proprio di sì. Premetto che la fortuna aiuta gli audaci. Bisogna anche buttarsi nelle cose. So di aver fatto alcune scelte complicate, è pure capitato che la fortuna venisse in soccorso».

Lei difficilmente molla. Giusto?

«Non mollo mai. Penso di avere una buona dose di resilienza, mi riconosco la capacità di far girare il negativo in positivo. Vedo spesso, troppo spesso, atteggiamenti arrendevoli. Sa quante porte in faccia mi sono ritrovata? Quanti viaggi a vuoto, giorni e giorni in giro nel mondo portando a casa niente. Ma bisogna imparare dalla sconfitta».

Il rovescio della maglia di

questa sua anima da Clorinda? Di combattente indefessa?

«Temo di essere fin troppo schietta. Sì, a volte sono troppo diretta. Ogni volta che lo avverto mi riprometto di controllarmi, cosa che puntualmente non accade».

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