«Sono uscito dal carcere e ho cambiato vita. Ma nessuno mi aiuta»

Caro Direttore,
le scrivo perché sono padre di tre figli minorenni e sono disoccupato. Ho avuto un passato di «picciotto» al servizio delle 'ndrine calabresi sparse un po' dovunque in Europa, nel 1994, come era inevitabile, sono finito in carcere, ne sono uscito dopo cinque anni di pena tutta scontata senza nessun beneficio di sorta (forse è stato giusto così). Ho cambiato radicalmente vita e però sembra che in questo Paese una volta imboccata una strada non puoi più tornare indietro. Non le dico il calvario per trovare un qualsiasi posto di lavoro: appena poi, per ovvi motivi di trasparenza, fornisco i dati sui miei trascorsi apriti cielo! Tutte le volte nel giro di qualche settimana sono regolarmente licenziato: le scuse che ho sentito sono surreali e tragicomiche allo stesso tempo, se non fosse che devo tirar su tre figli tornerei di corsa a farmi riassumere di nuovo nella mia vecchia «azienda»! Ma non ne ho voglia né me lo posso permettere. Forse lei penserà leggendo questa email (se mai la leggerà) che si trova di fronte al solito disoccupato in preda alla disperazione che tenta di aggrapparsi a qualsiasi cosa... Non è così: le scrivo per dirle semplicemente che è veramente difficile reinserirsi nella società da uomo onesto e rispettoso delle leggi, quando non si hanno i soldi nemmeno per comprare da mangiare ai propri figli. Quando si tocca con mano l'indifferenza di chi è pagato per affrontare e tentare di risolvere certe situazioni, a quel punto sarebbe legittimo e facile lasciarsi andare e ritornare su quella strada che nulla di buono darà mai... Mi rendo conto che per me oramai è troppo tardi per tutto: ho 45 anni e forse la vera condanna la sto scontando adesso e non quando stavo in carcere. Adesso però credo di pagare un prezzo troppo alto e sproporzionato rispetto agli errori commessi, credevo di aver già pagato, ero convinto che una volta fuori avrei avuto anch’io la possibilità di ricominciare una vita «normale» e in fondo «vera». Sembra che così non sarà, nel futuro mio e della mia famiglia si addensano ancora nubi nere e foriere di sofferenza e disperazione. Ma allora mi chiedo sempre più spesso se è stato giusto aver pagato se dopo sei lasciato ancora da solo senza una mano tesa a spingerti sulla strada buona? Mah! Se mai leggerà questa mia spero che una volta almeno lei tocchi questo tema così importante e delicato, so che lei è sensibile a certe questioni e per questo ho sempre seguito il suo lavoro di giornalista.

È giusto aver pagato, caro Giuseppe, perché gli errori si pagano sempre, che ci sia o no la mano tesa a spingerti sulla strada buona. Non è giusto però che, quando uno ha pagato, non riesca a inserirsi. In questo ha ragione. Però, sincerità per sincerità, ci sono due cose nella sua lettera che mi lasciano perplesso. La prima è quando racconta che alcuni lavori li ha trovati, ma è stato licenziato dopo qualche settimana.

Come mai il datore di lavoro non ha avuto da ridire subito sui suoi trascorsi? Come mai la discriminazione è scattata a scoppio ritardato? Siamo sicuri che le motivazioni del licenziamento fossero scuse tragicomiche? Non sarà che lei non ha saputo sfruttare al meglio le occasioni che pure le sono state offerte? In secondo luogo, caro Giuseppe, mi piace poco questa sottile minaccia che pervade tutta la lettera: io vorrei essere buono, ma... Se davvero lei ha cambiato vita nemmeno le dovrebbe venire il dubbio che si può tornare all’antica «azienda». Per il semplice fatto che quella non è un’«azienda». È criminalità.

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