Ma se solo, accidenti, avesse potuto godersi il successo che avrà questo disco, Michael Jackson sarebbe forse riuscito a sfumare le sue ossessioni, a lasciarsi abbracciare dall’amore, a tornare infine una persona serena. L’album di canzoni inedite che uscirà il dieci dicembre si intitola semplicemente Michael, ha una copertina tanto per dire (un collage di sue immagini famose) ma impacchetta senz’altro il miglior Michael Jackson dai tempi di Dangerous, roba di un secolo fa perché uscì nel 1991 quando il mondo era foderato di grunge e la gente voleva Kurt Cobain santo subito. Intanto, senza neanche arrivare fino in fondo alla decima canzone (ieri ascolto blindato nella sede Sony), si capisce subito che tutti i dettagli srotolati da giornali e tv sul disfacimento di Michael Jackson, storie peraltro piene di particolari morbosi, erano per lo più fesserie belle e buone perché lui, certo, avrà avuto i suoi bei problemi ma la passione per la musica, quella, era più viva che mai: e non c’è un secondo del disco che la smentisca nonostante il singolo Hold my hand duettato con Akon, che tra l’altro apre tutto, non sia il pezzo forte e la conclusiva Much too soon abbia un significato simbolico contestuale ma non di più. E già questo vuol dire molto: Michael non è un album raffazzonato tanto per fertilizzare ancora un po’ il business del caro estinto, non ci sono cadute di gusto né arrangiamenti banali, il che conferma che la sua spregiudicata famiglia non ci ha messo poi tanto le mani sopra, impegnata com’è solo a foraggiare volgarmente il minuto mantenimento contabile dell’impresa. In realtà, a queste canzoni, che si agitano sulle sue solite coordinate stilistiche, Michael Jackson (che le canta davvero, altro che) lavorava con la sua maniacale attenzione sin dal 2004, affondandole nelle sue ossessioni e quindi diluendole nel tempo fino a lasciarle alla fine lì, sospese nel nulla dopo la sua morte. Ma sono vive, eccome, vivissime. E l’inizio martellante di Hollywood tonight che si aggancia a un giro di basso inarrestabile e a un ritornello riuscito lo conferma, così come l’inconfondibile sussurrato di Keep your head up e l’imponente ballata (I like) The way you love me - letteralmente mi piace il tuo modo di amarmi - sono lì a dire che, anche adesso che non c’è più, anzi soprattutto adesso, Michael Jackson ha molte lezioni ancora da dare ai suoi colleghi, nello stile e nei contenuti. Qui si parla di amore, etereo per giunta, cosparso per ogni dove, mai sessuale, sempre empatico e necessariamente infantile quindi puro persino quando, come in Breaking news, c’è il lamento struggente di chi vive pedinato dalla stampa. Sembra provenire da un altro pianeta. Per capirci, il successone che ha contribuito a dare a Eminem dieci nomination ai prossimi Grammy Awards si intitola Love the way you lie - cantato in duetto con Rihanna - e vuol dire mi piace il modo in cui mi tradisci. Il contrario. Un altro mondo. Per forza Michael Jackson, già azzoppato dal ben noto scandalismo giudiziario, era finito fuori dai binari del successo discografico: parlava un’altra lingua rispetto a quella di moda.
Ma, c’è da dirlo, esigeva anche ben altri standard compositivi rispetto alla media e basta ascoltare Monster - con il rappato di 50 Cent - per cogliere che il livello è così alto da rendere inutile l’analisi canzone per canzone, da superare la meraviglia rockeggiante di (I can’t make it) Another day con Lenny Kravitz e Dave Grohl e gli incastri di voce e sax in Behind the mask, la cui musica è stata scritta da Ryuichi Sakamoto. Questo è un gran disco. Punto.Ma proprio grande.
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