La faccia di Michel Platini. Deve essere gustoso vedere la Fifa organizzare il campionato europeo per nazioni. La faccia di Sepp Blatter. Non deve essere piacevole portare il grande football in Africa e vedere il corteo dei campioni milionari, brasiliani, argentini, inglesi, italiani, francesi, tornarsene a casa cornuto e mazziato. È il bello del football che illude, delude, scompagina, spiazza, sorprende, da un giorno all’altro. In semifinale si presentano le due finaliste di Vienna duemilaotto, Germania e Spagna. Nell’altra semifinale, opposta al romantico Uruguay, torna a far scrivere e parlare l’Olanda, non più arancia meccanica.È l’Europa che si riscatta, è il vecchio Continente che recupera i valori smarriti e bruciati dalle vedettes incartapecorite. Dico di inglesi, francesi, italiani, roba da reduci e sopravvissuti, battuti non soltanto dagli avversari ma dalla propria presunzione, da una ignoranza “politica” e tecnica che ha portato Domenech, Lippi e, in misura minore, Capello alla sconfitta, all’eliminazione umiliante. Del Bosque, van Marwijck e Loew non appartengono alla stessa area vip, non godono di uguale stampa, hanno passaporto professionale con un numero limitato di timbri, non fanno tendenza eppure sono gli uomini dell’ultima moda calcistica, insieme con una figura del passato, anche nella postura, nell’abito, nello stile, dico di Oscar Washington Tabarez, uomo di un altro tempo come il suo Paese, la sua squadra, l’Uruguay. La Spagna sembra ripercorrere il cammino (al contrario per i trionfi) che fu della Francia, campione del mondo nel 1998 e d’Europa due anni dopo. La nazionale di Del Bosque sfrutta l’esperienza continentale dei club spagnoli, 4 coppe Uefa e 3 Champions vinte negli ultimi sette anni, la crescita di alcuni talenti nati in casa e cresciuti all’estero, Cesc Fabregas e Torres, accanto alla incredibile covata catalana, Iniesta, Pique, Xavi, Pedro, spiega il fenomeno spagnolo. Loew ha messo assieme il meglio del nuovo calcio tedesco, non ha costruito la “sua” nazionale ma la nazionale della Bundesliga, cognomi senza la stessa luce di altri grandi del passato ma con la fame di football, non soltanto di successo, senza l’ansia della prestazione che invece ha tagliato le gambe a inglesi, francesi e azzurri d’Italia. La freschezza anagrafica e mentale dei tedeschi, accanto alla loro qualità tecnica (sembrava di rivedere Overath, Flohe o Briegel nelle giocate di Oezil e Boateng), spiega la marcia finora trionfale, facilitata dal crollo tattico e psicologico di inglesi e argentini, comunque travolti da otto gol complessivi e da altre numerose occasioni in area di rigore. I numeri parlano chiarissimo: la Germania è la nazionale che ha realizzato il numero più alto di gol, 13, subendone soltanto 2 come la Spagna che si è fermata però a 6 gol realizzati, mentre l’Olanda è a 9 golsegnati e a 3 subìti. Van Marwijck ha compiuto il lavoro più difficile: rendere normale una squadra abituata a pensare al passato folkloristico e con un solo titolo europeo in bacheca. L’Olanda è una squadra assolutamente ordinaria fino a quando il pallone non finisce tra i piedi di Sneijder, la cui maturazione è continua, esplosiva e di Robben, una copia tulipana di Zidane (nell’espressione del viso e in alcuni dribbling), un talento strano nella postura, corre e sembra vendemmiare, con i piedi che producono grandissimo vino.
Due atleti finalisti di Champions, due calciatori che hanno frequentato la liga, la premier, la bundesliga e la serie A, il massimo per un professionista del football ma che, nonostante il curriculum già illustre, hanno soltanto ventisei anni. Il resto sono chiacchiere di un calcio che è stato rispedito a casa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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