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Spataro, il pm castigatutti che fa arrabbiare Usa e Iran

Milano«Il governo italiano deve rispondere del suo comportamento indecente nei confronti di Masoumi Nejad. Il piano infantile del governo italiano per arrestare il corrispondente dell’Irib (la tv di Teheran, ndr), accompagnato da una messa in scena davvero ridicola, riporta in mente una scena di satira politica più che una realtà. Il governo italiano sta mettendo a repentaglio il suo prestigio». (Alì Larijani, presidente del Parlamento della Repubblica Islamica dell’Iran, protesta domenica scorsa contro l’arresto per traffico d’armi in Italia del giornalista Masoumi Nejad).
E pensare che il governo italiano non ne sapeva niente. Davvero. Anche se per la mentalità del governo di Teheran è difficile credere che la retata che ha portato in carcere il corrispondente a Roma della tv iraniana, il riservato e industrioso reporter Nejad Masoumi, non è stata ordinata da Palazzo Chigi per punire Masoumi dei suoi reportage sull’Italia di Berlusconi. Eppure è così. Lo dimostra non solo il palese contropiede in cui la reazione iraniana ha colto la Farnesina, con il ministro Frattini costretto a chiedere a Gianni De Gennaro, coordinatore dei nostri servizi segreti, che diavolo fosse tutta questa faccenda. Ma lo dimostra ancora di più il nome del magistrato che ha chiesto e ottenuto l’arresto di Masoumi: ovvero Armando Spataro, procuratore aggiunto a Milano. Che di tutto potrà essere accusato, ma non di essere un disciplinato esecutore dei desideri del Cavaliere.
Così è da qui, dal corridoio al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, su cui si affaccia l’ampio ufficio di Spataro, che si deve partire se si desidera davvero capire il giallo spionistico e diplomatico che agita i già difficili rapporti tra Italia e Iran. Giallo, in realtà, già fin troppo chiarito dalle carte dell’inchiesta, pubblicate sabato scorso sul Giornale, che lasciano pochi dubbi - con buona pace dei vertici di Teheran - sul singolare modo con cui Nejad Masoumi interpretava la sua missione di giornalista. Ma che rimanda ad un secondo e più ostico mistero. Come è possibile che una sola Procura, anzi, un singolo magistrato, sia riuscito nel giro di (relativamente) poco tempo a pestare i calli ai servizi segreti ed ai governi di tre Paesi, due dei quali alleati (anche se con qualche incomprensione), e uno invece di tutt’altra sponda, membro e anzi capofila dell’elenco di nazioni marchiate come Stati canaglia?
Eppure è così. Perché dietro al «Masoumi-gate» c’è sempre lui: Armando Spataro, 61 anni appena fatti. È il magistrato che ha fatto incriminare e condannare una sfilza di agenti della Cia per il rapimento dell’imam radicale Abu Omar. Che ha fatto inferocire il Pentagono incastrando anche il comandante della base militare di Aviano. Che è diventato la bestia nera dei nostri servizi segreti militari, puntando il dito contro il loro potente capo Nicolò Pollari. Che è entrato per questo in rotta di collisione con i governi di centrosinistra e centrodestra. Che se l’è presa persino con la Corte Costituzionale. Che in America è diventato una sorta di icona liberal. E che, conclusa la «campagna» Abu Omar, ora spariglia le carte e se la prende con gli iraniani, ribaltando tutto e trasformandosi in una manciata di giorni da eroe degli antimperialisti a persecutore del dissenso anti-Cav.
«L’azione penale è obbligatoria, la magistratura è autonoma, e davanti alla legge tutti sono uguali», spiegava qualche tempo fa, a chi gli chiedeva come mai si fosse dedicato con tanta passione a dare la caccia ai maldestri 007 della Cia. Ed è probabile che direbbe le stesse cose se oggi gli chiedessero di spiegare il Masoumi-gate. Okay. Ma basta questo, a spiegare il fenomeno «Spataro contro il Resto del Mondo»? Qual è la vera molla che muove Spataro?
Inevitabile che qualcuno dica: l’ambizione. Ma Spataro sa bene che le sue chance di arrivare sulla poltrona di procuratore capo sono ridotte, oscurate dalle candidature di Ferdinando Pomarici e Edmondo Bruti Liberati. E allora per spiegare la determinazione con cui ogni tanto fa irruzione a colpi di manette negli scenari della diplomazia internazionale forse bisogna rassegnarsi alla spiegazione più banale: ci crede, gli piace. Per alcuni aspetti, forse, si diverte persino. D’altronde per raccontare il personaggio, può aiutare una battuta fatta anni fa, in una intervista mai pubblicata, quando aveva da poco iniziato ad occuparsi di antimafia: «Cosa manca a Milano? La Juventus.

E un paio di pentiti che ci aiutino a fare piazza pulita».

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