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SPEER, crolla il mito del «nazista buono»

Fu l’unico gerarca a evitare la forca. Ma oggi si scoprono le sue responsabilità nell’Olocausto...

SPEER, crolla il mito del «nazista buono»

«Se Hitler fosse stato capace di avere un amico, questo amico sarei stato io». A distanza di anni è stato lo stesso Albert Speer, architetto del Führer e ministro degli armamenti tedesco negli ultimi anni di guerra, a descrivere il suo rapporto con il dittatore nazista. Eppure, nonostante legami così stretti, al processo di Norimberga Speer fu l’unico tra gli esponenti di vertice del regime a evitare la forca. Se la cavò con una condanna a 20 anni, scontati nel carcere di Spandau. E il primo ottobre 1966, giorno del rilascio, ad attenderlo di fronte alla prigione c’erano centinaia di giornalisti e migliaia di curiosi. Da allora e fino alla morte, avvenuta nel 1981 a 76 anni, Speer godette in Germania di un’attenzione quasi morbosa. Rispettosamente accolto nelle case di magnati dell’industria e intellettuali, pubblicò due volumi (i Ricordi e i Diari di Spandau) che restano ancora oggi tra i libri più venduti in Germania. La sua biografia, scritta da Gitta Sereny, è considerata un testo fondamentale per capire la dittatura hitleriana. Attorno a lui si creò una fama (attentamente gestita dall’interessato) di nazista se non «buono», almeno rispettabile, di tecnocrate che per inseguire i suoi sogni di grandezza architettonica aveva stretto un patto col male, senza però avervi partecipato attivamente, e, soprattutto, senza esserne stato interiormente corrotto.
Ma se l’immagine del «nazista gentiluomo» ha resistito a lungo, una serie di studi storici ha finito per logorarla. E ora, mentre l’anniversario dei 60 anni dalla fine della guerra rinfocola in Germania il dibattito sulla responsabilità tedesca, il mito di Speer è finito in mille pezzi. «Quell’uomo ci ha imbrogliato», ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista Joachim Fest, storico di fama, che di Speer era stato ghostwriter, biografo, e che della sua testimonianza si era avvalso per scrivere il suo, notissimo, libro su Hitler. Più o meno le stesse parole ha usato il figlio di Speer, che si chiama Albert come il padre: «Ci ha preso in giro tutti». A portare sulle prime pagine di quotidiani e settimanali una questione che gli storici dibattono da anni è stato un programma televisivo, «Hitler e lui», tre puntate fatte di documenti d’epoca e fiction, apparse più o meno in contemporanea con l’ultimo libro di Fest: Domande senza risposta. Colloqui con Albert Speer.
Il risultato di questo processo di revisione storica non lascia spazio a dubbi. Analisti e commentatori hanno più volte citato una frase pronunciata da Simon Wiesenthal, il noto cacciatore di nazisti, quando iniziarono ad emergere le prove del pesante coinvolgimento dell’architetto del Führer nei crimini nazisti: «Se avessimo saputo allora quello che conosciamo oggi, quell’uomo sarebbbe finito di sicuro impiccato».
Speer aveva sempre detto di non sapere della persecuzione degli ebrei o, almeno di averne solo una vaga idea. E invece è ormai dimostrato che fin dal 1938 aveva avuto un ruolo di primo piano nella persecuzione. Ricevuto l’incarico da Hitler di progettare il cuore della futura «Germania», la capitale del grande Reich e del mondo, l’architetto di Hitler elaborò un progetto grandioso che aveva come culmine la nuova Cancelleria (un colossale edificio quadrato di 400 metri di lato) e la «Grosse Halle», enorme padiglione a cupola alto 300 metri, in cui potevano trovare posto al coperto 180mila persone. Per trovare spazio fu avviato un programma di demolizioni che interessava oltre 50mila appartamenti. E per fare posto agli sfollati Speer avviò una campagna di requisizioni contro gli ebrei berlinesi. I metodi usati furono durissimi e Speer trasse dall’operazione anche dei vantaggi personali: acquisendo a prezzi ridicoli un palazzo da una famiglia di ebrei in fuga, per rivenderlo subito dopo a valori di mercato; e impadronendosi di un edificio per farne il proprio studio personale.
Ma le sue responsabilità non si fermano qui. Nominato ministro degli armamenti finì per utilizzare e dirigere direttamente la manodopera di almeno 600mila internati nei campi di concentramento. Nel marzo del 1943 visitò Mauthausen e agli atti è rimasta una lettera in cui chiedeva al vertice delle SS di operare «con metodi più semplici e sbrigativi» per aumentare la produzione, senza distogliere forza lavoro per la costruzione di alloggiamenti migliori per i detenuti. I suoi risultati come ministro degli armamenti sono considerati straordinari ma gli storici tendono ora a sottolineare quanto questo sia costato ai prigionieri dei campi.
A colpire è l’abilità con cui Speer ha saputo muoversi per mettere in ombra le proprie responsabilità. A cominciare dal processo di Norimberga in cui ammise una «colpa collettiva dei vertici nazisti», dichiarandosi però, «personalmente non colpevole».
Non tutto è chiarito sull’architetto di Hitler. E non a caso Fest parla ancora di «enigma Speer». In molti gli attribuiscono almeno un grande merito: quello di aver ostacolato con tutti i mezzi il cosiddetto «Ordine Nerone», con cui Hitler stabiliva di fare terra bruciata di fronte agli alleati che avevano ormai invaso la Germania. Anche in questo caso c’è però chi gli attribuisce un calcolo: quello di acquistarsi benemerenze presso i vincitori. Le interpretazioni sono discordanti anche sull’ultimo incontro con Hitler. Tra il 23 e il 24 aprile 1945, mentre le truppe russe assediavano il centro di Berlino, Speer, al sicuro in una base militare nella Germania settentrionale, si fece consegnare un piccolo aereo tipo Cicogna. Con un pilota volò fino alla capitale, atterrando sotto le bombe, su un viale nei pressi del bunker dove il dittatore trascorreva le sue ultime giornate. Secondo gli storici più malevoli, Speer corse un rischio altissimo per evitare un pericolo ancora più grande: che Hitler lo nominasse suo successore, compromettendo i suoi sforzi per prendere le distanze dalla dittatura nazista. E di fatto il gerarca preferito da Hitler non è minimamente citato nel suo testamento.

Fest, al contrario, non rinuncia a un’interpretazione in qualche modo romantica del personaggio e avanza un’ipotesi: che Speer abbia voluto chiudere con un ultimo personale saluto l’amicizia di una vita.

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