Prima la speranza, poi lo strazio: "Non avrei dovuto lasciarla sola"

La disperazione del marito, Giovanni Gumiero, ufficiale della Marina rimasto a capezzale della moglie con la speranza di "un miracolo" che non c'è stato. "Non fate più succedere cose così"

Prima la speranza, poi lo strazio: "Non avrei dovuto lasciarla sola"

da Roma

L’ha vegliata a otto chilometri di distanza da dove l’aveva vista per la prima volta.
Le ultime ore sono state una speranza fino alla fine, per una notte e un giorno, sotto le luci al neon di un ospedale, in una stanza dal pavimento di marmo bianco. La speranza «di un miracolo», ammetteva Giovanni Gumiero, capitano di vascello della Marina, a chi gli sfilava davanti, gli metteva una mano sulla spalla. Speranza folle, ma ostinata. E poi la colpa, confidata agli amici più cari: «Dovevo arrivare il giorno prima». Il tormento: «Non dovevo lasciarla da sola, forse non sarebbe accaduto». Sono stati questi i pensieri del capitano che ha perso la moglie ammazzata dalla furia di un romeno. Speranza e rimorso. Ma anche una preghiera, per chi può scrivere le leggi: «Non fate più succedere cose così». È il desiderio che sboccia con prepotenza dal dolore. «In lui non c’è vendetta», dice anche don Patrizio, cappellano della Marina, parlando di quest’uomo. C’è giustizia.
Giovanna e Giovanni si erano conosciuti al Fleming, quartiere altoborghese di Roma Nord, più di vent’anni fa. Per un giorno lui l’ha salutata con una presenza continua nella stessa zona della città dove l’aveva vista crescere ragazza, al primo piano del reparto di rianimazione dell’ospedale Sant’Andrea, ex cattedrale del deserto, in fondo a via di Grottarossa. Lei era la sua famiglia, perché i figli non erano arrivati.
Gliel’hanno massacrata a botte, fino a farla morire, mentre lui era a lavorare a La Spezia, dove comanda le Forze di dragaggio. E quando Giovanna è morta, Giovanni era uscito per un attimo dall’ospedale, stanchissimo. Gli hanno dovuto comunicare la notizia per telefono, e questo è forse l’ultimo rimpianto che qualcuno gli dovrà estirpare.
Prima, nel lungo pomeriggio delle visite di parenti, amici, colleghi della Marina, politici e sacerdoti, non c’era violenza, non almeno nelle parole, solo la forza di chiedere un cambiamento: «Fate qualcosa per la sicurezza - ha ripetuto il capitano Gumiero ai politici - Sbrigatevi. Quello che è accaduto sia di monito. Ci sia una svolta. Non devono succedere mai più fatti come questo». Mai, ha pregato. «Una dignità impressionante», dice chi l’ha visto. Ma anche l’uomo di Stato, pieno di onore e capace di chiedere che «non succeda a nessun altro», al telefonino piangeva, e non riusciva a rispondere.

«Non poteva», raccontano i parenti. E quando la follia della speranza lo lasciava, prima ancora di sapere che tutto era finito, ripeteva, fissando il marmo bianco nel corridoio al neon: «Perché? Perché?». Perché a lei, perché a me.

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