L’Italia spezzata. Il fumo ti arriva in faccia già a Piazza Bologna, per le fiamme devi farti tutta via Lorenzo il Magnifico, poi il fuoco lo respiri.
La notizia che la stazione Tiburtina brucia sta rimbalzando già da ore da Napoli a Milano e i treni segnano ritardi da vette del Tour de France, tre, quattro, cinque ore, e la gente con le valigie neppure parla e guarda fissa il rogo con gli occhi da «che inferno è questo».
Quella cosa che sta bruciando non è solo la seconda stazione di
Roma. È mappa, nodo, mantice di quella rete ferroviaria che prima o poi
correrà veloce da Nord a Sud. Qui la Tav dovrebbe svicolare dal buco
nero burocratico di Roma e riscattare Napoli e il Meridione dal suo
futuro di scarto. Dovrebbe.
La Tiburtina è l’ingorgo da pagare
ogni volta che attraversi la Tangenziale Est e bestemmi contro quella
strettoia da lavori in corso con l’unica consolazione di dire: «Vabbè,
pazienza, almeno servirà a qualcosa». Solo che adesso che la vedi
bruciare, per un corto circuito alla centrale elettrica, con le ipotesi
senza certezze, dolo, fatalità, sfiga, attentato ideologico, o la
follia di qualcuno che non vuole pagare la penale, capisci che il
rogo della Tiburtina è molto di più.
La Tiburtina in fiamme è il simbolo di questa Italia spaccata, frantumata, interrotta, dove come in un sortilegio, una maledizione, nulla può essere portato a termine. Tutto brucia prima, soprattutto i sogni. Non c’è Nord. Non c’è Sud. Non c’è una linea retta, ma solo frammenti che l’un contro l’altro armati, dove ognuno guarda al suo orticello e fatica per bloccare quello degli altri. Il risultato è questa paralisi. Il dramma è che di paralisi in paralisi quello che sta andando in fumo è il futuro. Per sfiga? Per dolo? Per ideologia? O perché qualcuno non vuole pagare la penale. Gli interrogativi sono gli stessi.
Ecco, allora stai lì a veder bruciare questa stazione né
vecchia né nuova, rimasta sospesa a metà tra le sue ambizioni e i suoi
rifiuti, tra quello che vorrebbe essere e quello che non riesce più a
non essere e respiri, in questa domenica senza sole, il tempo che stai
vivendo. Puzza di cenere.
Servirebbe un ufficio grandi riparazioni. Qualcosa da cui ricominciare.
Ti capita un romanzo tra le mani. Non è un caso se proprio l’altra sera lo ha finito di leggere. È La strada dritta (Mondadori) di Francesco Pinto. Racconta l’epopea dell’autostrada del Sole. Il sogno di un pugno di «moschettieri », l’autostrada che da Milano a Napoli, sfidando l’Appennino e la burocrazia, semplicemente unisce l’Italia.
Non ci sono soldi. Non c’è neppure un vero progetto. Si
lavora a vista, magari anche improvvisando, ma senza guardare in
faccia a nessuno, come se quell’opera fosse una cattedrale, un atto di
fede, un modo per buttarsi alle spalle le
macerie della guerra. Su quella strada c’è disegnato il futuro. Quella
masnada di ingegneri civili, carpentieri, minatori, manovali fa
qualcosa che stupisce perfino gli americani. Bucano, spostano,
valicano, ridisegnano un Paese. La prima pietra, messa lì quando
neppure sapevano dove andavano a parare, è del maggio 1956.
Otto anni dopo, in anticipo sui tempi, 755 chilometri di asfalto, 113
ponti e viadotti, 572 cavalcavia e 38 gallerie. Quando presentano il
progetto all’Anas è così strano, una cosa mai vista, che i burocrati
rischiano di far saltare tutto. Dicono. Ma siete pazzi? Non avete
previsto i marciapiedi. Non esistono strade senza marciapiedi, dove
cavolo passano i pedoni?
Pinto racconta un’Italia dove la
modernità, il domani, non fa i conti con la mucillaggine. Dove se uno
pensa una cosa, e si sbatte, la fa.
E nel suo romanzo c’è qualcosa
delle ossessioni di Thomas Pynchon sulle radici di una nazione. Come
si costruisce? Chi sono i pionieri? Solo che qui non c’è l’America ma
l’Italia e lo stile non sconfina nel postmoderno.
La Tiburtina è ora uno scheletro nero. Ti appare come l’altare di un Paese sacrificato. Spegnete le fiamme. Questi non sono gli anni ’50, ma da qualche parte bisognerà pure ricominciare. Magari da una strada dritta.
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