Speranze in fumo Il Paese è diviso in due: torniamo agli anni '50

Le fiamme di ieri sono il simbolo dello Stivale sempre paralizzato dai veti incrociati, dove l’ultima vera grande opera moderna è l’Autostrada del Sole

Speranze in fumo 
Il Paese è diviso in due: 
torniamo agli anni '50

L’Italia spezzata. Il fumo ti arriva in faccia già a Piazza Bolo­gna, per le fiamme devi farti tutta via Lorenzo il Magnifico, poi il fuoco lo respiri.

La notizia che la stazione Tiburtina brucia sta rimbalzando già da ore da Napoli a Milano e i treni segna­no ritardi da vette del Tour de France, tre, quattro, cinque ore, e la gente con le valigie neppure parla e guarda fissa il rogo con gli occhi da «che inferno è questo».

Quella cosa che sta bruciando non è solo la seconda stazione di Roma. È mappa, nodo, mantice di quella rete ferroviaria che prima o poi correrà veloce da Nord a Sud. Qui la Tav dovrebbe svicolare dal buco nero burocratico di Roma e riscattare Napoli e il Meridione dal suo futuro di scarto. Dovreb­be.

La Tiburtina è l’ingorgo da pa­gare ogni volta che attraversi la Tangenziale Est e bestemmi con­tro quella strettoia da lavori in corso con l’unica consolazione di dire: «Vabbè, pazienza, alme­no servirà a qualcosa». Solo che adesso che la vedi bruciare, per un corto circuito alla centrale elettrica, con le ipotesi senza cer­tezze, dolo, fatalità, sfiga, attenta­to ideologico, o la follia di qualcu­no che non vuole pagare la pena­le, capisci che il rogo della Tibur­tina è molto di più.

La Tiburtina in fiamme è il sim­bolo di questa Italia spaccata, frantumata, interrotta, dove co­me in un sortilegio, una maledi­zione, nulla può essere portato a termine. Tutto brucia prima, so­prattutto i sogni. Non c’è Nord. Non c’è Sud. Non c’è una linea retta, ma solo frammenti che l’un contro l’altro armati, dove ognuno guarda al suo orticello e fatica per bloccare quello degli al­tri. Il risultato è questa paralisi. Il dramma è che di paralisi in para­lisi quello che sta andando in fu­mo è il futuro. Per sfiga? Per do­lo? Per ideologia? O perché qual­cuno non vuole pagare la penale. Gli interrogativi sono gli stessi.

Ecco, allora stai lì a veder brucia­re questa stazione né vecchia né nuova, rimasta sospesa a metà tra le sue ambizioni e i suoi rifiu­ti, tra quello che vorrebbe essere e quello che non riesce più a non essere e respiri, in questa dome­nica senza sole, il tempo che stai vivendo. Puzza di cenere.

Servirebbe un ufficio grandi ri­parazioni. Qualcosa da cui rico­minciare.

Ti capita un romanzo tra le mani. Non è un caso se pro­prio l’altra sera lo ha finito di leg­gere. È La strada dritta (Monda­dori) di Francesco Pinto. Raccon­ta l’epopea dell’autostrada del Sole. Il sogno di un pugno di «mo­schettieri », l’autostrada che da Milano a Napoli, sfidando l’Ap­pennino e la burocrazia, sempli­cemente unisce l’Italia.

Non ci so­no soldi. Non c’è neppure un ve­ro progetto. Si lavora a vista, ma­gari anche improvvisando, ma senza guardare in faccia a nessu­no, come se quell’opera fosse una cattedrale, un atto di fede, un modo per buttarsi alle spalle le macerie della guerra. Su quel­la strada c’è disegnato il futuro. Quella masnada di ingegneri civi­­li, carpentieri, minatori, manova­li fa qualcosa che stupisce perfi­no gli americani. Bucano, sposta­no, valicano, ridisegnano un Pae­se. La prima pietra, messa lì quan­d­o neppure sapevano dove anda­vano a parare, è del maggio 1956. Otto anni dopo, in anticipo sui tempi, 755 chilometri di asfalto, 113 ponti e viadotti, 572 cavalca­via e 38 gallerie. Quando presen­tano il progetto all’Anas è così strano, una cosa mai vista, che i burocrati rischiano di far saltare tutto. Dicono. Ma siete pazzi? Non avete previsto i marciapie­di. Non esistono strade senza marciapiedi, dove cavolo passa­no i pedoni?
Pinto racconta un’Italia dove la modernità, il domani, non fa i conti con la mucillaggine. Dove se uno pensa una cosa, e si sbat­te, la fa.

E nel suo romanzo c’è qualcosa delle ossessioni di Tho­mas Pynchon sulle radici di una nazione. Come si costruisce? Chi sono i pionieri? Solo che qui non c’è l’America ma l’Italia e lo stile non sconfina nel postmoderno.

La Tiburtina è ora uno schele­tro nero.

Ti appare come l’altare di un Paese sacrificato. Spegnete le fiamme. Questi non sono gli an­ni ’50, ma da qualche parte biso­gnerà pure ricominciare. Magari da una strada dritta.

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