Cultura e Spettacoli

"In Jersey Boys riscopro la mia vena musicale"

Clint Eastwood racconta il suo nuovo film sulle vicende drammatiche di un quartetto vocale Anni Sessanta

"In Jersey Boys riscopro la mia vena musicale"

Dritto, magro, perfettamente inquadrato: a Clint Eastwood i suoi 84 anni gli fanno un baffo. Anzi una barba, che si è fatta crescere in Marocco durante le riprese del film che ha appena finito di girare, American Sniper. Lo incontriamo negli uffici della sua Malpaso Productions nel lotto della Warner Brothers a Burbanks, lo studio con cui Eastwood ha realizzato gli ultimi suoi 28 film, una delle più fertili e durature collaborazioni tra un singolo artista e una major. Eastwood oggi vuole parlare però del suo penultimo film, Jersey Boys, in uscita adesso nel mondo. E lo fa a suo modo: sussurrando, senza mai alzare la voce, guardandoti dritto negli occhi, spesso con quel suo sorriso ironico e sornione. Autorità quieta, timida disinvoltura di uno che sa il fatto suo. Come ha detto Sean Penn, che ha lavorato con lui in Mystic River: «Clint è la persona meno insicura che conosca, e non sta lì a dimostrare di essere un regista, tipica nevrosi di Hollywood; dirige il film e basta». Jersey Boys è l'adattamento di un noto musical di Broadway ispirato alla vera storia di quattro giovani della classe operaia del New Jersey che formarono un quartetto chiamato Four Seasons, nel 1962 fece furore. Il loro leader si chiamava Frank Valli, idolo per una stagione. Eastwood torna spesso al film musicale: ricordiamo Honkeytonk Man (1982), Bird, su Charlie Parker (1988) e il documentario Piano Blues. Dal 2003, da Mystic River in poi, Eastwood, pianista jazz, ha composto le musiche di tutti i suoi film, spesso insieme al figlio Kyle, contrabbasista, compositore e arrangiatore.

Mister Eastwood, era da tre anni, che non dirigeva. Per i suoi ritmi lavorativi una lunga pausa. Che è successo?
«Nel frattempo ho recitato in Trouble with the Curve. È comunque vero, alla mia età un po' si rallenta, ma non troppo. Jersey Boys ha avuto un a lunga gestazione, con vari problemi a livello di sceneggiatura. Il mio film è molto più drammatico rispetto al musical e al suo libretto. Do egual peso alla musica e alle tragedie personali, scandali, relazioni pericolose di Valli e compagni. Ho un feeling per la melanconia dell'artista, per il lato oscuro della creatività. Ma subito dopo Jersey Boys sono partito con American Sniper. Insomma, non mi sono seduto. Non ancora».

Lei ha un rapporto stretto con la musica?
«Suono da quando ero bambino. Mio padre era un cantante, aveva un gruppo con cui suonava a feste e piccoli club al tempo della Grande Depressione. Io col piano imitavo i classici di allora, Gershwin, Cole Porter, Bing Cosby. Da adolescente già mi esibivo in locali della Bay Area intorno a San Francisco, dove sono nato e cresciuto. Avevo scoperto che se sai suonare bene una canzone ti danno da bere gratis. Ed è un modo per attrarre le ragazze. Ho sempre suonato, anche dopo il mio successo come attore e poi regista. Il piano è stato l'unico amore fisso della mia vita».

Ci parla di American Sniper?
«Mi hanno offerto la regia mentre stavo leggendo il libro autobiografico da cui è tratto. È la storia di un tiratore scelto dei Navy SEAL impegnato in Iraq, Chris Kyle, che sostiene di aver ucciso più di 250 soldati nemici durante le sue quattro missioni in Iraq. Nel film è interpretato da Bradley Cooper. Una storia tragica anche per altri risvolti, perché Kyle è stato ucciso in un poligono di tiro in Texas da un commilitone impazzito con sindrome post-traumatica».

È vero che doveva dirigerlo Steven Spielberg?
«Verissimo. Come avrebbe dovuto dirigere anche I ponti di Madison County, Flags of our Fathers e Iwo Jima. L'ho chiamato e gli ho detto: “Steven, com'è che dirigo sempre i tuoi scarti?” Lui è venuto a trovarmi e abbiamo parlato per una giornata intera di American Sniper, come intendeva farlo, che ricerca aveva svolto e così via.

Di lei si parla poco fuori del lavoro, è schivo e molto discreto. Eppure la sua apparizione alla Convention Repubblicana di due anni fa, ha fatto scalpore. Il discorso della sedia vuota...
«Devo dire che mi ha stupito la reazione dei media. Esagerata. Ero dietro le quinte e ascoltavo tutti questi discorsi pomposi e un po' monotoni. Mi è venuta voglia di fare qualcosa di diverso e originale. Ho pensato di leggere una lettera di lamentela a un presidente secondo me inabsentia, Obama. Subito prima di entrare in scena ho chiesto: datemi una sedia! Ho improvvisato tutto. Era uno sketch semi-comico. Ne hanno fatto una tempesta in un bicchier d'acqua. Comunque basta con le Convention, mai più!».

Si considera ancora un repubblicano?
«Mi considero un conservatore dal punto di vista fiscale, un “liberal” dal punto di vista sociale. Punto».

Ha già altri progetti nel cassetto?
«Devo montare American Sniper prima di tutto. Due film in un anno mi sembrano abbastanza. Ora non ho alcuna voglia di leggere copioni, né sapere quanto sia geniale questa o quella storia. Ma l'anno prossimo chissà cosa penserò.

Il segreto della mia longevità è che sono sempre disposto a cambiare idea».

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