Il volto magari no, ma la sua musica la riconoscerete alla prima nota. Se ne è andato Bruno Canfora, l'ultimo grande maestro della tv in bianco e nero, autentico simbolo di quel periodo indimenticabile e irripetibile che rese grande la televisione e tutti i pianeti della sua galassia, come il pop. Tanto per capirci, c'è la sua firma in brani come Il ballo del mattone o Il geghegè e pure nel Da-da-un-pa0 che ha reso immortali le gemelle Kessler (tra l'altro avvistate l'altro giorno in grande spolvero all'inaugurazione del Centro Zeffirelli di Firenze). Era un signore alto con i baffoni e la riga a separare in due i capelli, milanesissimo classe 1924 ma poi obbligato a girare dappertutto, persino in Germania dove suonò alla fine degli anni Quaranta.
Ma le sue radici erano alla Scala dove con il fratello (che poi fu primo fagotto dell'Orchestra per decenni) aveva studiato oboe e, grazie al suo insegnante, si era avvicinato a quel tipo di musica «negroide» che allora il regime vietava: il jazz. Finita la guerra (durante la quale la Wehrmacht lo obbligò a suonare in un'orchestra a Padova), Canfora cresce nell'universo Rai (allora Eiar) fino a diventare negli anni Sessanta il portavoce di una musica che ha colorato un'epoca. C'era lui a dirigere l'orchestra in Studio Uno e Canzonissima (già dall'esibizione 1959 con Nino Manfredi, Paolo Panelli e Delia Scala) oppure nelle tante produzioni del regista Antonello Falqui, un altro grande di quel periodo.
Elegantissimo nei gesti e nella gestualità da direttore, Canfora aveva quel tocco austero ma disinvolto tipico di chi, forgiato dalla sofferenza della guerra, si era calato prima di altri nello spirito del tempo, sganciandosi dal formalismo musicale di metà Novecento e affacciandosi al melting pot di generi e cifre che arrivava dal mondo anglosassone. Mai rock, sia chiaro. Ma tanto swing, questo sì.
Non a caso, tutti i grandi interpreti degli anni Sessanta e Settanta sono stati almeno una volta al suo fianco. Da Domenico Modugno con Come si fa a non volerti bene del 1965 a Un disco per l'estate fino a La vita interpretata anche dall'inarrivabile Shirley Bassey a Sanremo del 1968. E persino uno dei grandi tormentoni del Festivalbar, quel Stasera mi butto di Rocky Roberts, è stato firmato da questo gentleman che, alla vigilia dei 93 anni, si è spento in silenzio scegliendo un funerale privato e lontano dalla nostalgia.
Dopotutto, la sua musica era tutt'altro che nostalgica. Sensuale in Sono come tu mi vuoi di Mina. Scatenata in Fortissimo. E persino orientale in Anata to watashi che scrisse per la tournèe giapponese di Mina e che poi raggiunse un bel consenso anche da noi. In poche parole, la musica perfetta per quella fase che oggi ricordiamo solo come il boom economico degli anni Sessanta ma che è stata - mai dimenticarlo! - una fucina creativa così fertile da germogliare ancora oggi. Non è un caso, tanto per dire, che molti «stacchetti» tv siano tuttora quelli originariamente pensati da Bruno Canfora.
Perciò c'è da capire perché, dopo l'ultima apparizione tv nel 1995 su Raiuno, e dopo aver diretto a Sanremo, alla Mostra di Venezia e persino all'allora Eurofestival, il maestro abbia deciso di ritirarsi e di vivere per la prima volta lontano dai riflettori.
Una lunga vecchiaia che non ha spento le luci sul suo successo, proprio come capita ai simboli. Segnano un'epoca e poi rimangono immortali con quella, senza più bisogno di mostrarsi in pubblico oppure di cercare visibilità tutti i costi.
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