Con Curzio Malaparte, vuoi egli descriva i campi della steppa sui quali si piantano i cadaveri congelati (in Kaputt, inventando la prima installazione di Arte povera attraverso una immensa morte che non sembra reale bensì surreale), vuoi ne La pelle: quando i vittoriosi Alleati a Napoli passano da idioti nel contemplare la giovine vergine per un dollaro; o quando nello stesso, si fanno smontare dagli scuglizzi un carro armato sotto gli occhi; oppure allorché Malaparte, con controllata precisione, scheggia un profilo alla Arturo Martini e schizza un ritratto alla stregua di un Rosai o un Mafai che buttano giù un bozzetto sulla tovaglia di carta di una trattoria; o ancora quando in questo libro: Il buonuomo Lenin (Adelphi) che vide la prima pubblicazione in Francia nel '32 da Grasset col titolo Le bonhomme Lénine, il pratese con tre colpi di fioretto in un duello vincente ci regala Lenin che si afferra con la mano destra il polso sinistro e, tirando indietro il capo per appoggiarlo sulla spalla, ride a occhi chiusi. Ecco, sempre, Curzio Malaparte ha una lungimiranza su persone, fatti, storia che piano piano si fa veggenza: la veggenza tanto amata dai suoi antenati etruschi.
Senza fare mai menzione del manuale più necessario di Lenin, l'estremismo, malattia infantile del comunismo, Malaparte strappa il fondatore dei Soviet e capo della Rivoluzione Bolscevica, alla vulgata che la Russia è luogo lontano e impenetrabile alla intellighènzia occidentale; anzi, che egli rossiccio con gli zigomi alti da mongolo, fosse degno erede di Gengis Khan. Da Malaparte si impara. Anche la storia attuale.
Intanto la miscela esplosiva del popolo russo: cristiano e capace di insanguinare le strade; puro e malvagio; generoso e crudele è un serbatoio perenne per la cecità dell'Europa. È una energia che serve all'Europa. Lenin era un buonuomo, un piccolo borghese. Dice di sé: «Io non sono ciò che voi chiamate un uomo d'azione». Ecco allora che diviene il figlio di Robespierre, «un puro giacobino». Vorrà essere «il figlio unico di Marx». Ma invece di cambiare il mondo come il Maestro, vorrà cambiare gli uomini. Fino a pochi giorni prima dell'ottobre del 1917, sarà costantemente un piccolo impiegato esule in giro per l'Europa: Svizzera, Francia, Inghilterra, Finlandia. E quando entrerà in scena, dopo che Trotsky l'incendiario, il rivoluzionario folle, aveva già dato corpo e vita ai tentativi insurrezionali del popolo e dei contadini nel 1903, 1905, 1907, Lenin lo farà travestito e truccato come un tremebondo artista da avanspettacolo.
Curzio Malapare, in questa officina di riflessioni seducenti e scientifiche, pare voglia demolire il mito di Lenin; non è così: pagina dopo pagina, dalla descrizione del piccolo uomo ingobbito a compilare schede e articoli, ben protetto in case povere ma calde dell'affetto della suocera e della sposa, ci mostra come egli abbia fondato quello Stato dei Soviet, quel pugno chiuso del Comitato Centrale, radicale e feroce come fu negli anni giacobini del terrore il Comitato di salute pubblica che poi, nelle mani di Stalin, aprirà anch'esso al terrore ma punterà dritto a Berlino vincendo la guerra.
È perché fu un piccolo borghese che Lenin non commise gli errori di Hitler e Mussolini. Solo teoria, astrattezza, ferocia nel costruire prima la Rivoluzione e poi uno Stato talmente coeso che, per paradosso, anche oggi deve fare i conti con il suo fondatore. Lenin sa che più si è piccoli, invisibili a avversari e amici, e più si può giocare di astuzia nell'entrare nell'ingranaggio del potere. La forza della sua idea di rivoluzione non era di riempire subito lo stomaco vuoto, ma di lasciarlo a lungo vuoto affinché lo stesso si trasformasse in vuoto spirituale: la forza del piccolo borghese che pretende di dominare il mondo.
Il buonuomo Lenin insegna talmente che i miei appunti andrebbero a riempire diversi quaderni per un saggio. È tanto Malaparte, da mandare all'aria didascalie e nomi, anche perché essi trapiantano saggio a romanzo senza interruzioni. Qui si capisce Stalin che invade la metà della Polonia spartendosela con i nazisti, perché Lenin in pieno entusiasmo rivoluzionario invece di nazionalizzare va in retraite (ritirata) con il piano nep (libero commercio). Lenin ha capito che con gli eserciti controrivoluzionari alle frontiere, non può rischiare di fallire. Deve ritirarsi, ripiegare, per salvare la rivoluzione bolscevica. Così aveva fatto lo stesso generale Koutuzow di fronte a Napoleone: ritirarsi e incendiare per aspettare il nemico esausto. E così farà Stalin: prima andando avanti e poi indietreggiando. Questo me lo aveva già insegnato da ragazzino il mio amico sarto Salvatore Cotoloni, più leninista che stalinista come il fratello. Con il gesso dei sarti disegnava la strategia di Stalin sulla stoffa. Stalin chiederà anche ai partiti comunisti d'Europa, soprattutto a quello italiano, di non spingere sull'acceleratore, di indietreggiare. La parola d'ordine era di salvare e far prosperare la rivoluzione in terra di Russa.
Come l'astro Krusciov, che nel sessanta all'Onu si sfila una scarpa e la sbatte sul tavolo dei conferenzieri, non è altro che una pedina dell'antica risata impiegatizia di Lenin. Bisognava togliere di mezzo le spoglie ingombranti di Stalin accanto a quelle dell'unico Capo supremo.
Dunque Lenin è un figlio delle elites intellettuali dell'800 europeo e la Russia è Europa. Curzio Malaparte, dotato di occhio cinematografico e gusto sepolcrale, non può che chiudere questo saggio-romanzo con la descrizione della mummia: «Disteso nella bara di vetro, egli dorme tranquillo e imbalsamato.
Nel viso dalla bianchezza della cera, sparso di lentiggini, dagli zigomi sporgenti, la luce immobile e fredda delle lampade elettriche rompe violentemente i riflessi di rame della sua barbetta rossa». Lenin è ancora là. Nessuno osa toccarlo.
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