Aretha Franklin: la musica soul perde la sua regina

È morta la grande cantante. Una star tra gospel, suoni profani e impegno civile

Aretha Franklin: la musica soul perde la sua regina

Chi non segue la musica la ricorderà in The Blues Brothers, nel ruolo di una cameriera da bar di rosa vestita, ballare e imporre la sua tonante voce baritonale nel classico Think. Qualcuno l'avrà vista in tv in uno spot pubblicitario con Liza Minnelli; altri avranno visto le immagini dei suoi duetti con James Brown o Condoleezza Rice.

Anche per i profani, impossibile non accorgersi di Aretha Franklin, «la regina del soul» - incoronata sul palco a Chicago dal famoso dj Purvis Spann, la cantante più importante della storia secondo Rolling Stone, scomparsa ieri, a 76 anni, fulminata da un cancro al pancreas. Aveva lottato, e tanto, e il suo ultimo concerto, l'anno scorso, era stato definito «un miracolo» per energia e carica emotiva. Infatti lei a lasciarci non ci pensava proprio. Aveva un fitto calendario di concerti e soprattutto avrebbe voluto cantare ancora a Detroit, quella Detroit che ha cullato e svezzato il suo precoce talento, quella Detroit che s'è stretta in una veglia di preghiera appena saputo del ricovero e che ora piange la scomparsa di un mito, che aveva persino ricevuto la laurea honoris causa in musica a Yale. Aretha ha vinto talmente tanti Gramrny Awards (7 di seguito, 21 in tutto, l'ultimo fa per un duetto con Mary J. Blige) che, dal 1968 al '75, li hanno rinominati «Aretha Awards»; ha reinterpretato classici facendo sparire con la sua esuberanza la versione originale (quando incise I Respect di Otis Redding lui disse con tristezza e un po' di invidia: «Ho perso la mia canzone, quella ragazza me l'ha portata via»); ha rinnovato il pop, senza tradire le radici nere, con robuste iniezioni di gospel. Il talento era nel Dna di Aretha, nata a Memphis dal reverendo C.L. Franklin, predicatore-imbonitore che incise settanta dischi di sermoni arricchendosi tanto da guadagnare il sopranome di «uomo con la voce da un milione di dollari». Aretha crebbe in chiesa, sfogando la propria solitudine con il gospel. Viaggiando col padre - istrione orgoglioso della sua purezza spirituale e del successo mondano - Aretha incontra star come Mahalia Jackson e Clara Ward. «Vidi Clara cantare Peace In the Valley ad un funerale e, in un momento di trasporto, scagliare a terra il cappello. Fu lì che decisi di diventare una cantante». Così se ne andò a New York (lasciandosi alle spalle due bambini) e fu scoperta dal leggendario John Hammond, che la mise sotto contratto con la Columbia. Gli esordi sono altalenanti; nel primo album d sono Today I Sing the Blues che volò al decimo posto delle classifiche, e al tempo stesso concessioni al pop commerciale come Over the Rainbow.

Il primo concerto fu un disastro: a Chicago perde la voce e annaspa sul palco. «La mia musica è dentro di me - si giustifica - ma non so quale sia». Lo scoprì nell'inverno del '67, sedendosi al pianoforte negli studi della Atlantic e indicando le coordinate del nuovo soul. I Never Loved a Man (il suo primo grosso successo, rifatto persino dagli Aerosmith), Respect che trasforma in un inno femminista, Natural Woman, Think, il blues erotico Dr Feelgood, il blues riadattato per la Franklin da Don Covay Chain of Fools (la versione Italiana è di Iva Zanicchi), Call Me, Never Let Me Go sono alcuni degli inni che la faranno grande. «Il suo successo spazzava via tutto ciò che si trovava sul suo cammino... Non ci fu debutto più stupefacente dai tempi di Elvis», scrisse Peter Guralnick in Sweet Soul Music. La sua esplosione fece passare in secondo piano persino i moti per i diritti civili del '67, tanto che i giornali titoleranno: «è l'estate di Aretha, di Rap Brown e della rivolta».

Nonostante gli alti e bassi e i tentativi autolesionisti di buttare il suo talento tra depressioni, abiti allucinanti e assurde fobie, Aretha ha retto bene il passare del tempo. È cambiata la donna, non l'artista; lasciato alle spalle l'impegno al fianco di Martin Luther King, i concerti benefici contro il razzismo... Spazio agli esperimenti col soul moderno come Jump to It, un disco con incursioni dance e duetti con Eurythmics e George Michael che le ha portato un nuovo Grammy nell'82 o addirittura la sua scelta cinematografica nel citato Blues Brothers.
Poi quella che il suo psichiatra ha definito paura paralizzante dei viaggi in aereo e delle interviste, lo choc per la morte del padre rimasto cinque anni in coma dopo l'aggressione di un rapinatore, che non le hanno comunque impedito, di tanto in tanto, la zampata vincente fino allo splendido album A Woman Falling Out Of Love o a Sings the Great Diva Classics del 2014. Ultimo acuto di una star imprevedibile che nelle sue canzoni ha confessato tutto ciò che ha taciuto o non ha avuto il coraggio di dire.

Un mistero di esuberanza e potenza che si trasforma in musica. O forse, più semplicemente, come disse il padre: «Se volete sapere la verità, Aretha non ha mai lasciato la chiesa. Ascoltatela bene, capirete che è sempre stata una cantante di gospel».

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