Aveva tre e anni e mezzo quando le portarono via il padre. Una sera suonarono alla porta. La madre andò ad aprire. Le dissero che era un normale controllo. Che doveva andare con loro al comando. Era maggio. Ma era fresco. Il padre si mise una giacca. Indossò una sciarpa. Un saluto alla moglie. E lo portarono via. Da lì. Da lì più niente. Del padre nemmeno un ricordo. Era la notte del 4 maggio 1945. Quella fu l'ultima volta. L'ultima volta che Egea Haffner vide suo padre. Egea, che ora ha 78 anni e vive a Rovereto, è la bambina con la valigia. Quella che tutti conoscono. L'immagine simbolo dell'esodo istriano. Incontriamo Egea una sera di febbraio a Verona. È qui per la prima del suo film Egea, la bambina con la valigiadal cuore esule. La regia è di Mauro Vittorio Quattrina e la scenografia di Angiolino Bellé. Un documentario reso possibile grazie all'associazione Storia Viva per la direzione di Grazia Pacella. Egea è lì, sotto il palco che attende che le luci si abbassino.
Egea ci mostra subito la medaglietta del papà Kurt Haffner, figlio di un ungherese di Budapest che a Pola aveva una gioielleria e figlio di una viennese che faceva la pasticcera. Quando venne preso dai partigiani di Tito, Kurt Haffner aveva 26 anni, probabilmente infoibato nei dintorni di Pisino, forse la notte stessa.
Non c'è stato un processo. Non c'è un corpo. Non un verbale. Egea non ha mai avuto il diritto di piangere suo padre. Svanito nel nulla, lasciando un vuoto incolmabile, cullato nemmeno da una lapide. «Ricordo quella sera racconta Egea al Giornale suonarono alla porta di via Epulo 21, mia madre andò ad aprire ed erano due della polizia slava. Dissero che era un normale controllo e che mio padre doveva andar con loro. Da lì più visto, nemmeno un ciao». Era il 1945.
La situazione era sempre più insostenibile, il clima sempre più teso. Pola il 9 gennaio 1944 subisce la prima incursione aerea con un bombardamento a tappeto. I profughi italiani si preparano per partire. Pochi giorni prima della partenza di Egea, la nonna e la zia Ilse vogIiono conservare un ricordo e chiamano il fotografo Szentiványl per scattare alcune foto. Egea viene vestita con un abitino di seta fatto dalla zia. Le fa i boccoli, poi lo Zio Alfonso, presago di quanto sarebbe accaduto dopo, improvvisa una messinscena, le danno tra le mani una valigetta, un ombrello e un cartello: Esule Giuliana n. 30001. La zia annota sul retro la data: 6 luglio 1946.
Pochi giorni dopo la mamma di Egea, Ersilia Camenaro, costretta a scegliere la via dell'esodo, porta la piccola Egea a Cagliari, dove trova ospitalità da zia Angiolina. La nonna paterna invece, l'anno dopo, si imbarca sul piroscafo Toscana, la nave che da Pola portava i profughi in Italia e nel frattempo si trasferisce a Bolzano. «Di quel periodo ci racconta Egea ricordo gli allarmi, le sirene, le fughe nei sotterranei, nei rifugi». Una storia che nel film viene raccontata tutta, suddiviso per capitoli, con le interviste di Egea in prima persona e con le ricostruzioni e le immagini dell'epoca. Un film dedicato a tutti i bambini esuli. Dopo il periodo di permanenza a Cagliari, Egea viene portata a Bolzano. La nonna la voleva vedere e lì Egea ci rimase. I primi tempi, ricorda, era dura.
Dormivano nelle reti metalliche all'interno del negozio che avevano i nonni. Poi dopo un po' si liberò un appartamento e qui vi trasferirono il loro «Magazzino 18». Egea comincia a studiare. Aveva nove anni. Finite le scuole esce un bando riservato agli orfani di guerra e ai profughi, ed Egea ci prova. Quando compila la domanda, il personale dell'ufficio le dice che Orfana si scrive con la O maiuscola, per tutte le agonie e i dolori che i padri avevano patito.
Egea passa il concorso per l'Ente nazionale previdenza assistenza dipendenti statali e con gli anni diventa anche addetta responsabile. A una festa di compleanno conosce suo marito. Giovanni, che di professione fa l'ingegnere. Insieme hanno due figlie: una ha lo stesso nome della zia. Ilse e da lei ha quattro nipoti. L'altra, Roberta di figli ne ha due. Insieme sono anche tornati in visita a Pola, perché il mare è bello.
E perché a volte è meglio tornare per non restare. Del padre non seppe più nulla. Niente di niente. La madre, quella sciarpa, che il padre indossò quella sera prima di uscire, la vide il giorno dopo addosso a uno dei partigiani di Tito.
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