"Attraverso il matrimonio racconto 70 anni di Italia"

Pupi Avanti torna alla fiction (su Raiuno) dopo tre decenni Spiega: "È un film lungo 600 minuti. Ed è autobiografico Io e mia moglie ci siamo sposati quasi mezzo secolo fa"

"Attraverso il matrimonio racconto 70 anni di Italia"

Sarà un caso? Proprio ieri Pupi e Nicole Avati hanno festeggiato i 48 anni di matrimonio. Data fausta, augurale coincidenza: è proprio Un matrimonio, infatti, l’ultima fatica - non solo professionale - che il regista bolognese ha coronato in questi giorni. Ovvero la fiction in sei puntate che, dopo ventiquattro anni d’assenza, per il prossimo inverno su Raiuno, segnerà il suo atteso ritorno in tv. Nonché il personalissimo «bilancio» di mezzo secolo d’emblematica vita di coppia. «Io nella mia esistenza io ho fatto i due mestieri più difficili al mondo - sospira Pupi Avati -: il regista e il marito. Per questo, a quanti in materia pontificano o legiferano (magari senza aver nemmeno saputo gestire un paio d’annetti di asfittica vita di coppia) dico: di matrimonio può parlare chi l’ha vissuto a lungo. Non chi l’ha visto solo nei film».

E dunque ecco un film che racconta Un matrimonio. Che è poi, in qualche modo, il suo.
«Il mio e quello di coloro la cui storia matrimoniale s’è intrecciata con quella del nostro Paese. Una coppia - Flavio Parenti e Micaela Razzotti; lui democristiano, lei figlia d’un comunista - raccontati dai 20 ai 70 anni. Con le gioie, gli affanni, i dolori, le consolazioni; con i genitori, gli zii, i figli i nipoti; ma anche con (attorno e attraverso) il dopoguerra, il miracolo economico, il terrorismo, la strage di Bologna, il rapimento Moro. Un affresco sul soggetto - in fondo - più controcorrente che si possa immaginare».

Il matrimonio, evidentemente.
«Beh: oggi a parlarne c’è da sentirsi un illuso in via d’estinzione. Se chiedi “La signora è sua moglie?”, “No - ribattono, come fosse una rivendicazione - la mia compagna”. Se azzardi: “Vi sposate in chiesa?”, replicano: “Sì. Ma in una sconsacrata”. Viene quasi da ridere. O da piangere, secondo i punti di vista. Io sono fiero di quello che ho costruito con mia moglie, attraverso il sacramento che ci ha uniti. Dal momento in cui le chiesi il primo bacio, perché era il giorno del mio compleanno (non era vero; ma lei ci cascò e me lo dette) abbiamo superato tutto. Con difficoltà, certo; spesso, anzi, ad un passo dalla resa. Ma tenendo duro».

Lei non frequentava la fiction televisiva dai successi (risalenti però a trent'anni fa) di Jazz Band, Cinecittà e Proibito ballare. Perché?
«Perché - confessiamolo - fra i ’70 e gli ’80 noi del cinema commettemmo lo scandaloso errore di montarci la testa. Lo slogan veltroniano “Non s’interrompe un’emozione», contro gli spot nei film in tv, era giusto ma cieco. Ignorava la progressiva fuga del pubblico dal grande schermo. E noi, presuntuosi, invece di adattarci al linguaggio del piccolo, ci siamo rinchiusi nelle nostre sdegnate torri d’avorio. Risultato: oggi i film premiati a Cannes o a Venezia non va a vederli nessuno. Dovremmo essere orgogliosi proprio di ciò da cui, invece, gli spettatori fuggono come fosse la peste. E intanto la tv s’è affrancata dal cinema, e il suo cinema (che poi è la fiction) ora se lo fa per conto suo».

Per questo lei definisce Un matrimonio, girato coi mezzi e i complici del suoi set (compresi Christian De Sica - un nonno simpatico e scioperato - e Katia Ricciarelli - la zia Amabile che di mestiere veste i morti) «un film lungo 600 minuti»?
«Esattamente. Chi altri, se non la tivù, ti dà la possibilità di raccontare quattro film in uno? Mai, in 44 anni di carriera, avevo potuto accompagnare con una tale, quotidiana intensità la vita dei miei personaggi. Li ho visti conoscersi, amarsi, tradirsi, riconciliarsi. Vivere. E alla fine delle riprese, se in un film normale il distacco dalle proprie creature è sempre un piccolo trauma, in questo è stato addirittura uno shock».

Ma non la impensieriva affidarsi ad un’azienda in confusione come la Rai?
«Ecco un altro pregiudizio fasullo. Malgrado la cattiva fama che l’accompagna (e che ne allontana tante forze interessanti) la Rai è stata una committente ideale.

Ci si dimentica che metà del miglior cinema italiano, da trent’anni in qua, è stato prodotto proprio dalla Rai. Queste cose vanno dette. La Rai è come la fiction. È come il matrimonio. Ne parla male solo chi non li conosce davvero».

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