Daniele Abbiati
Quando si vuol scrivere un libro sul nulla, uno soltanto è il problema da risolvere. Uno solo, ma complesso: mostrare il nulla con le parole. Ora, siccome le parole non sono mai nulla (come minimo sono segni neri sulla carta bianca, da qualcuno interpretabili, in qualche modo), occorre che le parole di quel libro si annullino, che la loro somma sia zero. Non stiamo pensando, qui, a Flaubert e al suo desiderio di scrivere «un livre sur rien», poiché il rien di Flaubert è un rien materiale, non di senso, un rien, quindi, composto di stile. Stiamo pensando, invece, a Patrik Ourednik e al suo Caso irrisolto (Keller editore, pagg. 213, euro 15,50, trad. dal ceco di Alessandro Catalano). Ourednik, abituato a giocare con le parole, a farle roteare, saltare, volare, atterrare, bloccarsi e ripartire, dotato di quell'indole monella e anarchicheggiante di stampo oulipiano, da giocoliere un po' alla Perec, o alla Hrabal, al suo libro sul nulla ha dato una veste gialla. Ottima scelta. Perché nel «giallo» che cosa conta, alla fine? Che la storia abbia un senso; che la galleria di sospetti, indizi, ipotesi e fatti conduca a una soluzione, al limite anche a una non soluzione, il caso irrisolto è comunque un caso.
Qui, invece, Caso irrisolto è un casino, una presa per i fondelli. Non è un caso irrisolto, è un caso irrisolvibile. Qui le parole non si annullano vicendevolmente, non si smentiscono. Più semplicemente, sospetti, indizi, ipotesi e fatti sono rivoli d'acqua assorbiti dalla sabbia prima che giungano al mare del Significato. Esercizi di stile alla Queneau (Ourednik, nato a Praga nel '57, dall'84 vive in Francia), texticules sterili, gratuito e piacevole onanismo narrativo volto a scardinare, a far letterariamente e letteralmente uscire dai gangheri il Lettore, latore del suddetto Significato. Al netto delle digressioni sulla Cechia e su quanto si prendano sul serio gli autori cechi, delle battute rivolte al fruitore o sui critici letterari, del descrittivismo scarno ma incisivo, Caso irrisolto è una complicata macchina per friggere l'aria, a volte autoironica: «Pronunciate, le parole sono come scoregge, per un attimo risvegliano l'attenzione, ma subito dopo si perdono nell'aria; scritte restano in eredità alle generazioni future».
Fra un incidente-suicidio, due incendi, uno stupro, un omicidio di quarant'anni prima, in una Praga concentrazionaria e ghettizzata nella morsa dell'assurdo, dapprima seguiamo fiduciosi il pensionato Viktor Dyck e l'ispettore capo Vilem Lebeda, poi ci chiediamo dove vogliano andare a parare, infine, già che siamo in ballo, balliamo e chi s'è visto s'è visto. A meno che... A meno che il famoso e fantomatico Significato sia questo: «Nasciamo in un romanzo di cui ci sfugge il senso e lo abbandoniamo senza averlo capito».
Basta mettere «mondo» al posto di «romanzo» e il gioco è fatto.
PS. Se volete divertirvi di più, leggete prima la Postfazione in cui Jean Montenot si spacca la testa nel tentativo di razionalizzare il tutto, e poi il romanzo. Cosa fatta, capo non ha.
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