Mario Cervi

Che privilegio lavorare nella stanza accanto a lui

Per chi è cresciuto nel mito del Giornale era più di un maestro: era un monumento. Bastava ascoltarlo

Che privilegio lavorare  nella stanza accanto a lui

Al Giornale io ho avuto una seconda vecchiaia». Piaceva tanto, a Mario Cervi, quella battuta. Me la ripeteva ogni volta. E poi sorrideva come faceva lui, con quei tratti eleganti, da gentiluomo di una volta, umile come solo i grandissimi sanno essere. Me lo ricordo affacciarsi alla porta dalla stanza che era di Montanelli e che io volli lasciare a lui, per consegnarmi il suo pezzo di giornata. La sua scrittura era il suo specchio, ogni suo articolo era un suo ritratto: lucido e arguto, posato senza essere noioso, autorevole senza salire sul piedistallo, intelligente, pertinente, quel tanto controcorrente per sorprendere senza mai l'ossessione di dover stupire. Varcava la soglia del mio ufficio, commentava i fatti di giornata, scuoteva il capo. Poi se ne andava via con quel passo lento di chi ha percorso le strade del tempo, lasciando sempre, dietro di sé, un segno.Per chi è cresciuto con il mito del Giornale, per chi s'è consumato gli occhi sulla Storia d'Italia che lui aveva scritto con Montanelli («Ma Indro ci metteva solo la firma e la prefazione», precisava), Mario Cervi era più di un maestro, era quasi un monumento. Bastava stare ad ascoltare i suoi ricordi, i suoi racconti, i suoi aneddoti per sentirsi parte della storia, e non solo di quella del giornalismo. Ma anche la storia, da lui, veniva raccontata sempre un tono di sotto, senza eccessi, senza enfasi, con quel modo piano e distaccato, la giusta dose di sale e di pepe, senza mai eccedere. La signorilità scritta nel Dna.Ogni tanto, dopo il mio addio alla direzione del Giornale, mi telefonava. Mi telefonava lui, lo dico con un senso di vergogna e qualche rimpianto, perché dovrebbero essere i più giovani a ricordarsi dei propri maestri, e non viceversa. Invece era lui a anticiparmi, era sempre lui a chiamarmi. Se aveva visto un libro che gli piaceva, se voleva commentare un fatto, se semplicemente voleva farmi gli auguri di Natale o per le vacanze estive, se aveva qualcosa da raccontare. «Al Giornale io ho avuto una seconda vecchiaia», ripeteva sempre. La solita grazia, la solita cortesia. Poi, nelle ultime telefonate, la commozione che gli impediva di continuare.Averti prima letto e poi conosciuto è stato un privilegio, caro Mario. Averti avuto come vicino di stanza, firma di prestigio, prezioso collaboratore è stato un dono così grande che oggi mi trovo un po' in difficoltà. Vorrei farti leggere il pezzo, vorrei chiederti un consiglio. Forse mi racconteresti ancora di Montanelli che «era fatto per i pezzi della trigesima, non per quelli del funerale». Sicuramente troveresti le parole giuste per aiutarmi a uscire anche da questo imbarazzo, dal dubbio di non aver frasi adeguate per ricordarti come avresti saputo fare tu. La verità, caro Mario, è che da oggi ci sentiamo più soli. E l'unica cosa che penso possa farti piacere, l'unico modo che abbiamo di renderti omaggio, noi ex ragazzi cresciuti sui tuoi articoli e nel tuo mito, è di prendere quel segno che hai lasciato camminando con il tuo passo lento nei corridoi del Giornale.

Per cercare di non farlo morire mai.

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