Pigro, urbano e freddoloso come sono, le montagne mi piace ammirarle da fondovalle o ancor meglio dal mio divano, leggendone in buoni libri. Mi tornano in mente Le scarpe al sole di Paolo Monelli, Barnabo delle montagne di Dino Buzzati (come in un sogno, lo lessi da bambino), Uomini, boschi e api di Mario Rigoni Stern, e pagine sparse, vuoi belliche vuoi escursionistiche, di Comisso e di Cancogni. Tutti morti purtroppo. Poi è arrivato Mauro Corona ma quando mi sono accorto che i suoi libri diventavano sempre più grossi e sempre più indistinguibili dai precedenti sono tornato anche letterariamente in pianura. Dopo una pausa dedicata ad altri paesaggi mi sono imbattuto in Matteo Righetto, scrittore di Padova e però con casa di famiglia a Colle Santa Lucia, paese dolomitico nel cui territorio ha ambientato il suo primo romanzo montanaro, La pelle dell'orso, uscito per Guanda nel 2013. In questi giorni è uscito per Tea Apri gli occhi, in cui i protagonisti cercano di ritrovare se stessi scalando il Latemar. Senza muovermi dal mio divano, molto più Oblomov che Messner, gliene chiedo ragione.
Perché tanta montagna nei tuoi libri?
Mi sembra che per te sia una scuola di vita e di pensiero, o sbaglio?«Amo, frequento e vivo la montagna fin dalla più tenera età, quando mio padre mi portava in vetta sulle sue spalle forti. La montagna è per me un luogo dell'anima, anzi dello spirito, dove percepisco la mia piccolezza innanzi alla maestosa bellezza del Creato. Non semplice ambientazione narrativa, quindi. La montagna nei miei libri è iniziazione, umiltà, sofferenza, contemplazione, catarsi, elevazione e redenzione».
Nonostante il lessico cristiano, in Apri gli occhi sento un po' di panteismo. Vi leggo: «Ti ricorderai di non avere mai creduto in alcun dio, ma di aver sempre creduto solo nella Montagna, come un Padre a cui misurarsi». Insomma di che religione è il tuo ultimo libro?
«Penso sia un romanzo cripto-cristiano, in cui viene raccontato laicamente un difficile e doloroso percorso di emendazione e riparazione dopo un'esistenza costellata da desideri effimeri, egoismi, vanità, tragici errori. È una storia sulla soglia della conversione, una graduale elevazione che conduce inevitabilmente a una croce: la redenzione».
Tu sei salito sul Latemar come i protagonisti del libro? Sei un escursionista? Un alpinista?
«Sul Latemar sono stato innumerevoli volte. In particolare sullo Schenon, 2791 metri, sono approdato in tre occasioni diverse, da bambino, da ragazzo e da uomo. Le mie mani hanno toccato la sua croce tre volte. Io racconto solo i luoghi che conosco. Sì, sono un camminatore e un buon alpinista».
Qual è la tua massima impresa in questo campo?
«La Torre Stabeler, una delle Torri del Vajolet, per la Via Emmerich».
Caspita, un sito specializzato la definisce «arditissima via che sale lo spigolo Sud-Ovest della Torre. La chiodatura è decisamente precaria». Meglio scendere subito a valle: come mai la parte urbana della storia si svolge a Milano anziché nella tua Padova?
«Ho scelto Milano perché per raccontare un matrimonio contemporaneo, una convivenza postmoderna, un doloroso rapporto sentimentale vissuto oggi, mi pareva più adatta di Padova».
Cosa pensi di Mauro Corona? Hai altri scrittori di montagna come riferimento?
«Come personaggio dello spettacolo mi pare che ci sappia fare piuttosto bene, lo dico senza ironia. Non lo conosco come scrittore, confesso di averlo letto troppo poco per poter esprimere un giudizio su questa sua attività. I miei autori di riferimento non sono scrittori di montagna, forse perché io non mi considero tale. Detto questo, amo Rigoni Stern e il Buzzati alpino».
Quali sono i tuoi autori, quindi?
«Oltre a Buzzati e Rigoni Stern, Caldwell, Hemingway, Twain, McCarthy, Carver, Cechov, Anderson, Camon, Comisso, Rulfo, Hempel, Wolff, Mozzi...».
E di Marco Paolini, protagonista del film tratto da La pelle dell'orso, prossimamente nelle sale?
«Per Paolini ho una stima e un'ammirazione sconfinati, da sempre. Lui è un grande artista e un geniale narratore, è un uomo d'altri tempi e questo per me è un grande complimento».
Un uomo d'altri tempi in che senso? Anche tu ti consideri un uomo d'altri tempi?
«Un uomo di antichi valori, capace come pochi di non scambiare l'ignoranza degli innovatori per novità. Credo di essere anch'io un uomo d'altri tempi o almeno mi sforzo di esserlo. A chi mi chiede se sono conservatore o progressista spesso rispondo: Sono un conservatore progredito. E citando Mahler, che amava le Dolomiti quanto il sottoscritto, dico che la tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco».
Prima hai parlato di desideri effimeri, egoismi, vanità: queste parole racchiudono la pochezza dell'odierno rapporto uomo-donna che hai descritto nella prima parte di Apri gli occhi...
«È esattamente così.
Nel romanzo c'è anche la pochezza dell'odierno rapporto genitori-figli, la miseria di un rapporto genitoriale fragile, privo di valori autorevoli, nel quale si confondono i ruoli e non si capisce più chi siano i padri e le madri e chi i figli».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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