da Venezia È senza speranze la Sicilia da tragedia greca raccontata da Daniele Ciprì in È stato il figlio, il primo film italiano presentato in concorso in questa 69ª Mostra del cinema (otto minuti di applausi) tratto dall'omonimo romanzo Mondadori di Roberto Alajmo. Il regista ci ha abituati in passato, in coppia con Franco Maresco soprattutto con Cinico tv su Raitre, a una galleria di mostri così iperrealisti da sembrare finti. Percorso inverso ora nella finzione cinematografica, in cui ritroviamo lo stesso cinismo in tutti i personaggi che, dall'inizio fino all'ultima inquadratura (una coerenza non proprio tipica del nostro cinema), affollano la storia raccontata in flashback dal personaggio di Busu (interpretato dall'attore cileno Alfredo Castro con un doppiaggio un po' straniante) e incentrata sulle vicende della numerosa famiglia Ciraulo, nonni, genitori e nipoti, il cui capofamiglia Nicola è interpretato da Toni Servillo.
Ciprì usa, diversamente dal romanzo, il tono del grottesco più spinto, nei costumi, negli scenari, negli inserti visivi, moltissimo nell'interpretazione di Servillo. Fa un'unica eccezione nella sequenza al ralenti che mostra il fatto dolorosissimo all'origine di tutta la storia: un proiettile vagante di uno scontro fra bande rivali colpisce a morte la piccola della famiglia, Serenella (Alessia Zammitti). Ma per i disperati Ciraulo si apre uno spiraglio - ecco il pragmatico cinismo - quando vengono a sapere dei risarcimenti dello Stato per le vittime della mafia. Il miraggio dell'ingente somma diventa l'inizio della fine della famiglia che comincia subito a spendere e spandere finendo anche nelle mani di un usuraio. Quando poi i soldi finalmente arrivano, il capofamiglia decide tra l'incredulità generale di acquistare una Mercedes di lusso. «Perché simbolo della ricchezza, della miseria della ricchezza, strumento di sconfitta e di rovina», spiega il regista. Che non nasconde i suoi forti dubbi iniziali sul progetto: «È un film che non avrei mai fatto da solo. Non mi convinceva, avevo paura. L'ambientazione era talmente realistica che non riuscivo a capire come poterla raccontare per immagini. Poi gli sceneggiatori Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo hanno reinventato con me la storia del libro trasformandola in una tragicommedia più vicina al mio modo di interpretare la mia terra». Daniele Ciprì usa la stessa identica sincerità nel raccontare come Toni Servillo sia entrato a far parte del film: «Nicola era il personaggio più difficile e importante. Abbiamo fatto numerosi provini ma per i miei produttori Toni Servillo era perfetto. Io invece pensavo che non potesse diventare Nicola Ciraulo, un cannavazzo (uno straccio). Ma poi ci siamo incontrati, parlati ed è diventato amore per la vita».
Così il film, tutto volutamente sopra le righe, trova una corrispondenza d'amorosi sensi nell'interpretazione dell'attore napoletano che stavolta recita in palermitano (nelle parti in dialetto stretto il film uscirà nelle sale il 14 settembre con i sottotitoli): «In realtà ero io quello timoroso di danneggiare il film. Di non avere i numeri per stare dietro alla solidità del romanzo e alla sua qualità del racconto di una famiglia legata e governata da arcaiche leggi familiari che convive con i comportamenti di oggi dettati da un consumismo alienante», spiega Servillo che tra pochi giorni ritroveremo in Bella addormentata di Marco Bellocchio, sempre in concorso.
Ora Daniele Ciprì, che di mestiere fa soprattutto il direttore della fotografia (anche del film di Bellocchio), sogna di uscire dalla sua Sicilia e di raccontare altre storie. E magari di girare un film un po' meno «mortuario anche se sorridente» di questo.
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