La colta complessità del male sulle orme di Telesio Interlandi

Dopo trent'anni torna in libreria il dirompente studio di Giampiero Mughini sul direttore de "La difesa della razza"

La colta complessità del male sulle orme di Telesio Interlandi

Uscito una trentina di anni fa per la Rizzoli, A via della Mercede c'era un razzista, di Giampiero Mughini, torna ora in una più elegante veste grafica per Marsilio (253 pagine, 18 euro), accompagnata da una lunga nota introduttiva dell'autore stesso il cui titolo dice tutto: «Storia di un libro poco piacione».

Si trattava e si tratta- di un volume matrioska, più libri nascosti all'interno di ciò che formalmente li conteneva, la biografia di Telesio Interlandi, il più dimenticato e il più maledetto dei giornalisti italiani del Ventennio, il direttore di La difesa della razza, il quindicinale corifeo delle leggi razziali del 1938, il portavoce dell'antisemitismo più infame. Interlandi però era stato fra le due guerre anche il direttore di Tevere e di Quadrivio, quotidiano il primo, settimanale di arte e cultura il secondo, dove avevano collaborato le firme più brillanti dell'epoca, da Brancati a Moravia, da Pirandello a Soldati, da Cardarelli ad Alvaro, a Delfini. Interlandi però era stato anche un intellettuale appassionato di arte e di letteratura, amante di ogni avanguardia, difensore dell'architettura razionalista, traduttore dal russo di AleKsandr Blok e i suoi giornali, i libri da lui scritti (Pane bigio aveva inaugurato la carriera di editore di Leo Longanesi), la sua stessa persona erano stati parte viva di quella Roma che fra il caffè Aragno, cenacolo dell'intellighentia del tempo, il Teatro degli Indipendenti di Anton giulio Bragaglia dove ogni rappresentazione diventava un avvenimento, le grandi gallerie d'arte che proponevano e esponevano opere fatte apposta per turbare il sonno dei placidi borghesi, si era rivelata un terreno fertile di idee, progetti, esperimenti che la inserivano a pieno titolo nella cultura europea del tempo.

Una volta letto il libro, insomma, ciò che ne emergeva ne emerge- non è tanto o solo la vita di un uomo condannato in seguito al ludibrio perpetuo per il suo razzismo, sorta di sepolto vivo a cinquant'anni per le sue idee nefaste, ma una specie di continente sommerso, di Atlantide sconosciuta eppure esistita e ben diversa da quella raccontata dalla retorica antifascista che, a fascismo caduto, aveva preso il posto della retorica fascista, e per la quale tutto era stato solo conformismo, gusti provinciali, nessuna cultura, nessuna fede, se non un opportunismo più o meno mascherato, un doppiogiochismo più o meno virtuoso all'insegna di un antifascismo integerrimo, ma così ben nascosto che, è il caso di dire, pressoché nessuno al tempo se n'era accorto.

Stava e sta- qui «lo strano caso di Telesio Interlandi» che fa da sottotitolo al libro. Come e perché un intellettuale del genere aveva potuto immrgersi sino al collo nella fogna del razzismo biologico? Davvero tutti quelli che solo in seguito lo avrebbero maledetto potevano dichiararsi puri e senza colpa? Bastava l'abiura, sia pure contorta, in stile Guido Piovene, la scusante della giovane età, in stile Vitaliano Brancati, il negare, in stile Il Mondo di Panunzio, il diritto di parola a Interlandi perché lui l'aveva negata agli ebrei, per considerare il caso chiuso?

Nel 1991, l'anno di uscita di A via della Mercede c'era un razzista, i saggi sul fascismo di Renzo De Felice avevano ormai fatto scuola, nonostante un iniziale fuoco di sbarramento e tutta una storiografia revisionista aveva in seguito provveduto a dare un'immagine più giusta della cultura fascista fra le due guerre: la riconsiderazione del futurismo; l'avventura novecentesca delle riviste, le arti figurative e l'architettura; gli sbandamenti e i ripensamenti ideologici, fecondi e a volte drammatici, di scrittori quali Felice Chilanti, Fidia Gambetti, Elio Vittorini, Massimo Bontempelli, Curzio Malaparte, Alberto Savinio. Un libro del genere, quindi, sarebbe dovuto cadere in un terreno propizio, l'occasione per un sereno esame di coscienza, per un'analisi senza pregiudizi di cosa fosse stata veramente l'Italia fascista. Scrive Mughini nella sua introduzione ad hoc per questa nuova edizione, che Panorama, il settimanale per cui lavorava, lo accusò di aver «sfumato le ragioni del fervore ariano e antisemita di Interlandi» e gli suggerì di trovare in futuro protagonisti che «moralmente e stilisticamente ne valessero davvero la pena». Sul Sole 24 ore e su Repubblica Andrea Casalegno e Nicola Tranfaglia scrissero in sostanza che Interlandi era stato solo «un opportunista cinico» e che, nel «salvarlo», l'autore non rendeva una buona causa all'antifascismo e all'antirazzismo... Tirato in 12mila copie, il libro ne vendette intorno alle 8mila, cifra più che ragguardevole e che dimostra come spesso i lettori siano più intelligenti dei critici chiamati a illuminarli.

Trent'anni dopo, mi sbaglierò, ma sarà come trent'anni prima, nel senso che non è cambiato culturalmente niente, pur se in superficie, politicamente, sembra essere cambiato tutto. Il libro si venderà, ma la classe dei colti farà come lo struzzo nel migliore dei casi, darà il calcio dell'asino nel peggiore, l'accusa di fascista che chiude la questione.

Scrive Mughini che a lui «fare l'Avvocato delle Cause Vinte» non l'ha mai appassionato: «Ti trascini dietro un grande pubblico osannante, un pubblico cui paiono sublimi le affermazioni degne della terza elementare. Il fascismo era un'ignobile dittatura. La mafia fa veramente schifo. È molto meglio essere onesti che corrotti. Sono delle ovvietà a leggere le quali di solito mi appisolo».

Ho l'impressione tuttavia che il punto sia un altro e ha a che fare con l'assenza di una memoria condivisa della storia d'Italia, l'abiura, è il caso di dire, della propria memoria come atto fondante della nuova Italia nata dalle rovine di quella che c'era stata prima, il fascismo visto come un pozzo nero da coprire perché infetto e la cui acqua però infettò solo i fascisti e non gli italiani che la bevvero... Al suo posto ci siamo inventati un'Italia antifascista sentimental-consolatoria, quella che già nel 1946 Italo Calvino tratteggiò da par suo sull'Unità trasformando l'Otto settembre nell'Odissea, ovvero «il mito del ritorno a casa: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici. È la storia degli Otto settembre, la storia di tutti gli Otto settembre della Storia». Un'interpretazione suggestiva, non fosse che Ulisse e i suoi intraprendono il loro viaggio verso casa al termine di una guerra vittoriosa in terra altrui, il solo Ulisse si salva e di Otto settembre, purtroppo, la Storia conosce solo il nostro. Anni dopo, Luigi Comencini la codificherà nel suo magistrale Tutti a casa: «Colonnello, è successa una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando addosso» diceva concitato al telefono il tenente Innocenzi, con la faccia di Sordi. Per esorcizzare il dramma ci andavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata una seconda pelle.

Così, da settant'anni ormai viviamo in un'Italia tarantolata dall'ansia politico-ideologica di negare il fascismo e dalla realtà effettuale delle cose che ogni due per tre la costringe a ricordarlo, una negazione trasformatasi in seguito in giudizio etico, una rilettura manichea che ha di fatto reso monco quanto incomprensibile un percorso nazionale e l'idea stessa dell'Italia come nazione, trasformandoci in un Paese che sputava su se stesso e sempre e comunque si assolveva di ogni colpa e di ogni responsabilità. Solo che senza la pietas per le ragioni dei vinti e senza un reale esame di coscienza quanto a quelle dei vincitori non si costruisce un Paese, ma solo la sua caricatura. Che sia quest'ultima ad aver trionfato, trasformando l'Italia in un Paese senza -senza dignità, senza un progetto, senza una comunità d'intenti, senza un'identità storica lo testimonia il paradosso di un neofascismo di ritorno, o di risulta, fate voi, -crani rasati e caccia grossa all'immigrato- i cui rappresentanti un giovane neofascista dei miei tempi avrebbe preso a calci nel sedere. Specularmente, anche l'antifascismo si è trasformato nella sua caricatura. È divenuto un puro fonema, la testa di turco buona per ogni occasione, il randello con cui il politicamente corretto colpisce tutto ciò che non gli piace, dal populismo alle regole grammaticali.

È l'estrema deriva del de-pensamento, l'illusione nominalistica di chi pensa che agitando un fantasma

metta in mora la realtà. Dice Mughini che, a trent'anni di distanza, non cambierebbe una virgola di ciò che allora scrisse. Ha ragione, e del resto è scritto benissimo. Ma non si illuda. Glielo metteranno di nuovo in conto.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica