Da non crederci. Ieri Zelda, la figlia 25enne di Robin Williams, attrice emergente tra le più promettenti, ha lasciato Twitter e Instagram. Follia di una viziata figlia di papà? No, decisione comprensibile. Anzi, meritevole. Di più: esemplare. Dopo che il corpo di suo padre era stato ritrovato con un cappio al collo nella casa di Tiburon, Zelda Williams ha postato un passo del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry promettendo che «tenterò di guardare in alto». Un messaggio commovente per l'universo mondo. Settantunmila retweet. Ottantatremila «stelline», ossia segni di apprezzamento. Però ieri ha scritto, sempre su Twitter, che «mi dispiace dovrei essere superiore» però «cancellerò questo account per un lungo tempo, forse per sempre. Lo deciderà il tempo. Arrivederci». Che cosa è successo? È successo che i soliti bifolchi, la mandria di animali che popola i social network spesso nascosta dietro nickname o nomi fasulli, hanno approfittato del dolore per sghignazzare.
Peggio: per umiliare il morto e purgarsi dalle proprie miserabili turbe. Sono i cosiddetti «haters», gli odiatori che utilizzano i social network come bidone dell'immondizia, anzi spesso come wc, per sfogare i propri istinti repressi e autoregalarsi quindici secondi (non minuti come diceva Warhol) di ridicola notorietà. L'odio immotivato è il vero bug dei social network. Nessuno di chi ha insultato Robin Williams lo odiava davvero. Molti magari non avevano mai neppure visto un suo film e qualcuno addirittura ha anche creduto trattarsi di Robbie Williams. Ma l'occasione era perfetta, un palcoscenico mondiale per esibire il proprio spregevole rigurgito di malessere. Pensate, tra insulti e parolacce, qualcuno ha persino modificato con Photoshop le foto di Robin Williams mostrando i segni dell'impiccagione. Il collo ferito. Graffiato. Lacerato. Si è quindi superato un limite invalicabile. Una «condicio sine qua non». Una vergogna assoluta che avrà un senso solo se diventerà una sorta di «catarsi social» che aiuti tutti (anche gli stessi network) a ripulirsi. Più regole. Più filtri. Altrimenti quelle che oggi sono piazze di conversazione digitale si condannano a diventare squallide latrine sempre più marginali.
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