Cultura e Spettacoli

Così Hitler ha distrutto il mondo portando Clausewitz all'estremo

La guerra totale perseguita dal Führer ha radici antiche e i suoi generali non erano affatto innocenti

Così Hitler ha distrutto il mondo portando Clausewitz all'estremo

L'immagine finale che tutti abbiamo in mente è quella di lui, Adolf Hitler, chiuso nel bunker, intento a spostare armate che non esistono più, a urlare in faccia a generali, che lo guardano basiti e terrorizzati. E della sua condotta durante la Seconda guerra mondiale si ricordano facilmente decisioni che paiono insensate, come la richiesta al Feldmaresciallo Friedrich Paulus di una difesa ad oltranza della sacca di Stalingrado, o la scelta di mandare a morire per le strade di Berlino vecchi e bambini travestiti da soldati.

Eppure quest'analisi che potremmo, in soldoni, e con qualche forzatura, ricondurre alla formula «Hitler il pazzo che condusse alla distruzione la perfetta macchina bellica edificata dai generali tedeschi» è assai parziale, non tiene conto di numerosi fattori. Il primo è che la ricostruzione delle forze armate tedesche dopo il disastro della Prima guerra mondiale è stata portata avanti proprio sotto Hitler. La «perfetta macchina bellica» - che in realtà limiti ne aveva - quindi è stata generata proprio sotto le direttive di quello che risulterebbe, poi, essere un leader militare farneticante. Senza contare che, per anni, i contrasti tra i generali tedeschi e il loro Führer sono stati relativi e non hanno inficiato le numerosissime e tragiche - per il mondo libero - vittorie dell'Asse.

Insomma, c'è una pesante ipoteca epistemologica sulla valutazione che gli storici militari hanno dato sull'operato di Hitler. Essendo il suo piano di annichilimento di ogni resistenza alla potenza tedesca moralmente e umanamente riprovevole, in molti hanno pensato bene di caricarlo anche dello stigma della completa irrazionalità. Ma questo poco aiuta a studiarlo e comprenderlo. A questo scopo risulta invece molto utile il nuovo saggio di Stephen G. Fritz, pubblicato dalla Leg: Hitler il primo soldato (pagg. 560, euro 26).

Fritz, che è professore di Storia alla East Tennessee State University, ricostruisce il pensiero militare di Hitler a partire dalla sua esperienza sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale sino alla caduta del Terzo Reich.

Ne esce una descrizione del Feldherr della Germania nazista molto diversa da quella abituale. Innanzitutto non esiste una divaricazione così netta tra la strategia del Führer e quella dei suoi generali, generali che dopo il conflitto (almeno quelli superstiti) hanno cercato di scaricare sul dittatore tutte le responsabilità, comprese le loro. Hitler giunse a sviluppare idee deliranti ma partendo da una serie di assunti che apparivano all'inizio logici e che erano fondamentalmente un'estensione delle riflessioni del più grande teorico della guerra tedesco: Carl von Clausewitz (1780-1831). Clausewitz aveva assistito alla nascita degli eserciti nazionali e di un nuovo tipo di guerra, una guerra totale, di popolo. Di conseguenza il generale prussiano aveva intuito che ormai i conflitti erano conflitti totali in cui era fondamentale il morale della popolazione e il suo coinvolgimento. Estremizzando queste idee Hitler ridusse qualunque conflitto bellico ad una mera questione di sopravvivenza. Ogni idea di conflitto limitato, o regolato, gli appariva come utopistica.

Come spiega Fritz, partendo da considerazioni come questa accettare e metabolizzare la sconfitta nel Primo conflitto mondiale per Hitler era sostanzialmente impossibile. Tanto più per il fatto che era avvenuta mentre le forze tedesche non erano state ancora costrette a combattere sul suolo nazionale. Idee che Hitler aveva sin dalla fine del conflitto e che rafforzò nella prigione di Landsberg am Lech, che lui definì «la mia istruzione universitaria pagata dallo Stato».

Ogni suo ragionamento a partire da allora fu improntato all'idea di spazio vitale, ogni operazione bellica andava portata avanti a partire da quanto Clausewitz scriveva nel suo Della guerra: «Anche dopo una sconfitta esiste la possibilità di andare incontro ad un ribaltamento di sorte grazie allo sviluppo di rinnovata forza interna... la legge del mondo morale impone che una nazione sull'orlo dell'abisso cerchi di sopravvivere a ogni costo». Questa idea scaraventò Hitler, fondamentalista del darwinismo sociale, nella Seconda guerra mondiale e gli impedì di uscirne. Colpa di Clausewitz allora? No, nei suoi studi il concetto è solo uno dei tanti sviluppati e nemmeno in modo univoco.

In compenso molte delle ossessioni di Hitler erano le stesse dei generali, da Moltke il vecchio (1800-1891) in poi, che avevano dovuto convivere con il sogno di espansione della Prussia/Germania conculcato dal fatto che la Germania era circondata a Ovest e a Est da potenze concorrenti.

Come documenta in dettaglio Fritz, Hitler come stratega e tattico copiava molto e inventava poco. Spesso i comandi si sentivano dire dal Führer quello che volevano sentirsi dire. Almeno sino a che la guerra fu una guerra vincente. Solo dopo è iniziata la vera critica dei militari, che però non avevano soluzioni migliori di Hitler per ribaltare il conflitto. Avevano portato Clausewitz all'estremo della guerra totale e non sapevano più uscire da questo paradosso. Hitler credeva che l'unico modo di uscire dalla trappola fosse la morte come segno della inflessibile volontà tedesca. E in questo senso era più coerente di loro, per quanto questa coerenza fosse un gigantesco errore tattico.

Ah e il Blitzkrieg, dove la campagna a terra è strettamente dipendente dal dominio del cielo? Era un'idea teorizzata dagli italiani (a partire da Giulio Douhet) che, come spesso capita, hanno folgoranti intuizioni neglette in patria.

Hitler come al solito aveva copiato, solo con più mezzi.

Commenti