Prima ci pensa un po', giusto il tempo di trovare le parole giuste. Poi dice: «Oggi il mio obiettivo principale è il docufilm che sto girando per riscoprire un genio della musica cubana: Francisco Fellové». Il Matt Dillon che non t'aspetti è ormai un artista completo, che a 53 anni è ormai riuscito a sganciarsi dalla parte di sex symbol hollywoodiano stile Rusty il Selvaggio di Francis Ford Coppola per calarsi in ruoli complessi e diventare anche regista (ha diretto anche James Caan e Gerard Depardieu in City of ghosts del 2002). «Ma ora non mi piace tanto parlarne», ha detto qualche giorno fa al Collisioni Festival parlando sul palco di fianco ad Abel Ferrara. In ogni caso, è stato un percorso che nel 2004 gli ha fruttato una nomination agli Oscar per Crash - contatto fisico di Paul Haggis con Sandra Bullock e lo ha appena portato a mettersi nei panni del serial killer Jack in The house that Jack built di Lars von Trier con Uma Thurman che potrebbe essere presentato a Cannes (sempre che sulla Croisette abbiano perdonato le dichiarazioni clamorose del 2011) oppure a Venezia nel 2018. «Un regista molto presente e intuitivo», lo descrive. Insomma, un'altra sfida per questo newyorchese ribelle, nato a New Rochelle nel '64 e mai rassegnato a essere «semplicemente» un attore da botteghino.
Ma come ha fatto a scoprire questo musicista ormai praticamente dimenticato.
«Ho sempre amato la musica e già nel 1999 avevo raccolto un po' di materiale su questo compositore cubano. Poi la professione mi ha portato da altre parti, ma adesso ho ripreso a lavorarci».
Ma chi era Francisco Fellové Valdés?
«Lo chiamavano El Gran Fellové, che è anche il titolo del mio film. Un autore e cantante nato vicino all'Avana che è diventato il simbolo di un genere musicale affascinante, il cosiddetto feeling, che a Cuba chiamano feelín o addirittura el feeling».
In sostanza?
«Un tipo di musica che parte dal bolero e dalla canción dell'isola cubana per incontrare il jazz e lo stile crooner americano. Tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta ebbe un grande successo e portò lo stesso Fellové a collaborare con Nino Rivera e Tito Puente. È morto a quasi 90 anni nel 2013 ed è un geniaccio da riscoprire».
Ma perché proprio lui?
«Oltre alla sua musica, mi ha colpito la sua storia. Nato poverissimo, è riuscito a superare ogni avversità per raggiungere i propri sogni. Il compito di un attore è anche di mettere in evidenza queste storie e questi personaggi memorabili».
Cuba è una miniera di tesori musicali sepolti dalla memoria.
«C'è stato anche il Buena Vista Social Club, anche se questa è una cosa decisamente diversa».
Lei è diventato una superstar con il cinema e solo raramente si è incrociato con la televisione.
«E dire che mi piace lo strumento televisivo, per me è il media migliore, il più approfondito, ed ha una forza narrativa molto vicina a quella dei libri».
Però ha recitato soltanto una volta in una serie tv.
«Wayward Pines della Fox mi aveva convinto subito e quindi ho accettato di recitare nel ruolo dell'agente Ethan Burke. Ma nella stagione successiva mi è sembrato che il copione e la sceneggiatura virassero troppo verso lo sci-fi, che è troppo lontano da quello che per me è l'arte della recitazione. Quindi ho lasciato perdere».
Perché?
«C'è meno interesse nel delineare e raccontare i personaggi, cosa che è invece il mio obiettivo principale. Non a caso per City of ghosts ho chiesto addirittura una lunga serie di permessi per allestire il set in Cambogia, zona normalmente vietata. E non credo che tanti altri siano riusciti a farlo...».
All'ultimo Roma Film Festival lei è stato presidente della giuria di Camera d'Oro TaoDue. Quest'anno, Pedro Almodóvar era presidente di giuria a Cannes e ha criticato Netflix.
«Se mi chiedi qual è il luogo dove ho visto i miei film preferiti, quelli che mi hanno emozionato di più, probabilmente ti rispondo che è la tv. Non sono in totale disaccordo con quanto ha detto Almodóvar, ma credo che un bel film sia un bel film ovunque, a prescindere da dove lo vedi».
È difficile essere attore e regista contemporaneamente?
«Una volta mi ha diretto Kevin Spacey, uno dei pochi che sappia capire che cosa significa essere da una
parte oppure dall'altra della telecamera. Era il film Insoliti criminali del 1996. Un vero piacere recitare per lui, anche perché sa comprendere quali siano le difficoltà e gli obiettivi di un attore davanti all'obiettivo».
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