Dare voce ai ricordi (e ai dolori) di un'icona. La Bellucci è "Divina" nei panni della Callas

Grande successo per l'attrice cinematografica nel suo debutto teatrale in Italia

Dare voce ai ricordi (e ai dolori) di un'icona. La Bellucci è "Divina" nei panni della Callas

«La mia non è solo una voce. C'è l'anima, in questo strumento». Come per tutti i sommi, anche per lei andare in scena significava mettere a nudo l'anima. Questa l'intuizione vincente che ha trasformato Maria Callas, lettere e memorie - l'atteso debutto teatrale italiano di Monica Bellucci, giovedì al festival di Spoleto - da rischioso azzardo a felice, anzi inattesa, esperienza teatrale.

Inutile negarlo: per un'attrice mai salita su un palco calarsi nei panni di un mito complesso e tragico come quello della Divina, di cui legioni di ammiratori si ritengono unici e gelosi custodi, col quale s'erano già misurate primedonne ben più consumate di lei, e in una forma di teatro insidioso come quello «epistolare», in cui a contare è solo la forza delle parole, l'impresa appariva temeraria. Se a questo aggiungete che Tom Volf, curatore del testo un'intelligente selezione di lettere e appunti, anche inediti, attraverso cui Maria svela glorie ed affanni di una vita tormentata - non ha sostenuto la Bellucci con alcuna regia, lasciandola totalmente sola e pressoché immobile a dominare un palco ricoperto di rose rosse, con la sola compagnia di un divano identico a quello che la cantante aveva nell'appartamento di Avenue Mandel, le premesse parevano condurre dritti al disastro. E invece proprio l'anima, ha finito per trasformare questa sfida in un successo.

Innanzitutto la voce della Bellucci: non educata alla performance dal vivo, e alle prime battute addirittura impastata dal terrore, esprimeva però la stessa innocenza e fragilità che la soprano, soprattutto ai suoi inizi, fa trasparire dalla sua scrittura minuta e gentile. Poi l'umiltà e il rispetto con cui l'attrice s'è accostata al mito: e questo ha fatto da specchio ai sentimenti identici con cui Maria avvicinava i suoi monumentali spartiti. Infine il fervore palpabile che la Bellucci ha messo in questa impresa mnemonica (più di un'ora di parole che sono altrettanti frammenti di un'anima) quasi evocativi dei sentimenti più religiosi della Callas, per cui il canto «non è una vetta d'orgoglio, ma solo un tentativo d'elevazione verso quei Cieli dove tutto è armonia». Ne è scaturito il ritratto intimo di una donna struggente e vulnerabile, assai diversa (e tanto più interessante) della «tigre» del jest-set, paparazzata dai rotocalchi dell'epoca. Ad un certo punto è parso davvero di essere nel salotto di Maria, a condividerne l'anima mentre si svelava all'insegnante Elvira De Hidalgo, al marito-padre Meneghini, all'amica Grace Kelly, al maestro Pasolini o al grande traditore Onassis, tra le ansie della star alla continua ricerca di conferme, e il decomporsi del mito inesorabilmente eclissato nel tramonto della solitudine. Il resto l'ha fatto il potenziale iconico della stessa Bellucci che - pur diversissimo da quello della Divina - ha comunque contribuito ad avvolgere di fascino questo singolare transfert teatrale.

E naturalmente l'«altra» voce, quella di Maria, che con arie tratte da Gioconda, Traviata, Norma, Tosca e Andrea Chenier faceva da rabbrividente contrappunto alle confessioni della sua anima. Gli spettatori hanno seguito per un'ora con il fiato sospeso. E infine tributato caldi applausi alla coraggiosa protagonista, che s'inchinava regale nell'abito di chiffon nero appartenuto alla sua mitica alter ego.

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