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Il disastro non è il Covid ma i politici occidentali

Nel suo nuovo saggio Niall Ferguson descrive il rapporto complesso tra le civiltà e le malattie

Il disastro non è il Covid ma i politici occidentali

Nella lingua inglese Doom vuol dire sventura e rovina ma anche, ed è significativo, destino. Ma Doom è anche il nome del capostipite dei video giochi contemporanei: un eroe in lotta contro gli zombie.

Nessun titolo fu quindi più azzeccato per il nuovo, splendido, libro di Niall Ferguson, il cui sottotitolo è ancora più evocativo: la politica della catastrofe (Doom. The politics of Catastrophe, Penguin). Come tutti i lavori precedenti di Ferguson, è prima di tutto un libro di storia, che però cela una riflessione sul presente e anche sul futuro. La storia è quella delle catastrofi cosiddette naturali e soprattutto delle epidemie: per Ferguson la storia è sempre storia contemporanea, cioè nasce dagli stimoli del presente, in questo caso della pandemia prodotta da Covid.

Attraverso una comparazione delle numerose epidemie, fin dall'antichità, Ferguson ci mostra che esse non sono mai calamità naturali, che l'uomo ha sempre avuto un ruolo nella loro esplosione e che, in ogni caso, nel modo di gestirle, esse hanno determinato il destino, appunto, di una civiltà. E si comprende uno dei fili rossi del libro: l'attuale nostra civiltà ha affrontato il Covid nel più sbagliato dei modi, trasformando quella che era una epidemia non più feroce di altre, anche recenti, come l'asiatica del 1957-58, in un flagello che ha distrutto basi considerate solide e che rischia di accelerare il declino dell'Occidente, uno dei temi chiave della riflessione di Ferguson anche negli altri lavori.

Come scrive lo storico anglo americano, se una epidemia colpisce una società che è già in declino, questa malattia ne renderà più rapida la decadenze. Se invece la civiltà è forte, in crescita, anche la malattia più devastante non ne arresterà il progresso, anzi lo affretterà, come accaduto diverse volte nella storia. E non servono tanti paragoni con il lontano passato; le pagine in cui Ferguson mostra come l'Occidente affrontò l'asiatica una sessantina di anni fa, raffrontata con l'oggi, sono impietose; per l'oggi.

Allora non vi fu alcun lockdown, nessuna chiusura, nessuna brutale aggressione al capitale di ricchezze e al capitale sociale. Allora la civiltà era più solida, da un punto di vista morale: meno individualistica e più comunitaria, aveva meno paura della morte e sapeva che il rischio zero non esiste. Nessuno alla fine degli anni Cinquanta avrebbe accettato di farsi chiudere in casa, e nessun potere pubblico avrebbe osato, almeno nell'Occidente liberale e democratico, spingersi a una decisione del genere. Cosi ecco che la storia di Ferguson diventa una sferzante auto da fé delle élite occidentali attuali, soprattutto quelle politiche e della loro incompetenza.

Si badi bene, Ferguson non parla di incompetenza tecnica ma, quasi di nuovo crocianamente, proprio di incompetenza politica. Sono cinque i punti della incompetenza delle élite politiche occidentali, crollate di fronte al Covid: «1. Incapacità di imparare dalla storia 2. Incapacità di visione 3. Tendenza a ragionare sul brevissimo periodo 4. Sottovalutazione dei pericoli 5. Attesa di una certezza che non verrà mai».

Concretamente, secondo Ferguson , tutti i governi occidentali hanno atteso a intervenire, pensando che la pandemia si sarebbe limitata alla Cina, poi agli altri Paesi ma non al proprio. Intervenuti troppo tardi, lo hanno poi fatto male, a quel punto con la politica del lockdown e delle segregazione, sfruttando e alimentando le paure di una società disgregata, il cui unico valore è la mera «nuda vita», per dirla con Giorgio Agamben.

C'è poi un altro fattore: essendo in declino, le nostre società sono più statalizzate rispetto a quelle precedenti. Lo Stato amministrativo vi ha preso talmente il sopravvento, persino negli Usa, figuriamoci in Europa, che i politici non hanno potuto fare altro che sottostare agli ordini di una tecno-burocrazia (che noi chiamiamo sanitocrazia) composta da scienziati, tecnici, funzionari pubblici, imprenditori assistiti dalle commesse statali. Ora che il danno è fatto, cosa accadrà? E qui Ferguson, da storico, si avventura in alcune previsioni. La prima è che la pandemia accelererà la seconda guerra fredda, quella tra Stati Uniti e Cina: anzi, il Covid è già stato un episodio di questa guerra, fin dal modo in cui il virus è uscito, forse anche dai laboratori, di Wuhan.

La seconda è che vi saranno prossime catastrofi, che le classi politiche non riusciranno a prevedere e che affronteranno con lo stesso grado di incompetenza delle attuali, se non maggiore. La terza è che, già disgregate e deboli prima del Covid, le società occidentali vi escono ancora più periclitanti, come mostra il livello di polarizzazione e di scontro che le tormenta, superiore persino a quelli precedenti.

La citazione ottimistica finale, dal Journal of the Plague Year di Daniel Defoe «dopotutto, io sono ancora vivo» cela a fatica le conclusioni del più pessimistico, cioè del più realista, dei libri di Ferguson.

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