La dittatura della finta bontà che cancella il vero omicidio

Un uomo uccide la moglie. Ma nessuno è disposto a punirlo Una potente distopia sulla società in cui vince l'ipocrisia

La dittatura della finta bontà che cancella il vero omicidio

Un uomo torna a casa. In uno di quelli che chiamano i supercondomini di Copenaghen. È ubriaco. Litiga con la moglie. La violenta. E la uccide. Davanti agli occhi del figlio. Si rende subito conto dell'orrore. E decide di andarsi a costituire. Quando torna con gli investigatori non trova nessuno: il cadavere della donna è scomparso. L'appartamento è immacolato: nessuna traccia di sangue, nessuna traccia di lotta, di violenza e tanto meno di omicidio. L'uomo è sconvolto. Continua a giurare di aver ucciso la moglie. Cerca prove ovunque. Anche un minimo indizio. Niente. Continua, disperato, a piangere e a confessare di essere un assassino, di non aver avuto un incubo, che lui ha ucciso davvero. Lo portano via. Non in galera, ma in un istituto psichiatrico.

Inizia così L'uomo che voleva essere colpevole dello scrittore danese Henry Stangerup, romanzo introvabile da almeno quindici anni: scritto nel 1973, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1990 da Iperborea, riproposto poi nel 2001 nei tascabili da Guanda nel 2001, ora torna finalmente in libreria sempre per Iperborea nella nuova bellissima Collana Luci (pagg. 192, euro 16, traduzione di Anna Cambieri) con la postfazione di Anthony Burgess. Non a caso Burgess scrive de L'uomo che voleva essere colpevole come di «un grandioso romanzo». Lo è. Non si tratta dell'ennesimo giallo, ma di un romanzo distopico che ci racconta di un futuro prossimo, non tanto lontano da noi, dove vige una «perfetta democrazia», dove tutti devono essere felici, dove non esistono il crimine né tanto meno gli omicidi. Così il protagonista uxoricida Torben, scrittore che ha perso la sua vena narrativa e lavora presso l'«Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua» (il cui compito è semplificare il linguaggio per la riforma progressiva della lingua, togliendo alle parole ogni tratto di umanità e vita) è obbligato a iniziare il difficile percorso di reinserimento e rieducazione che lo porterà al «Parco della felicità», enclave per malati di mente. Un incubo kafkiano che prosegue perché Torben continua a chiedere di essere dichiarato e giudicato colpevole per l'omicidio della moglie. Omicidio negato dalle autorità perché «compiuto sotto gli effetti dell'alcol», dunque non per una «colpa» di fatto inesistente ma in un momento d'ira provocato da una dipendenza che avrebbe potuto essere evitata. Omicidio, ancora, che è piuttosto ricondotto alla casualità e all'accidentalità, non alla colpevolezza. Omicidio, infine, ascrivibile a uno stato di momentanea follia (vi ricorda per caso tanti casi di cronaca degli ultimi anni?). Queste motivazioni fanno di Torben un «non colpevole» ma anche un «non adatto» a educare il figlio, affidato a una famiglia equilibrata e degna della tessera «Mammapapà» con la quale lo Stato ufficialmente riconosce a una coppia lo status di educatori.

In un mondo perfetto non c'è posto per la colpa, residuo del vecchio mondo. La colpa è un'onta che la società perfetta deve cancellare, una macchia insopportabile che psichiatri, assistenti (nuovo nome, meno invasivo, per indicare corpi di controllo e polizia), conduttori televisivi: la società cosiddetta civile si affanna a estinguere, sopportando con ostinata benevolenza ogni rigurgito di colpevolezza di Torben. Lo fa con compiacimento, con bontà, addirittura, offrendo trasmissioni televisive e riunioni per produrne una metamorfosi insolitamente lenta. Cancellare il male diventa l'imperativo sociale primo che tutti seguono. L'aggressività è ammessa, certo, e riconosciuta come forma espressiva naturale dell'uomo, ma deve essere sfogata in luoghi debiti e appropriati: in riunioni (una sorta di talk show) in cui gli assistenti ne controllano il tasso e ne vigilano le espressioni. Un mondo perfetto dove persino l'ira può e deve trovare il suo posto. Così come Torben dovrebbe ritrovarvi il suo posto e la sua vita quotidiana, anche grazie all'ausilio di tranquillanti e altri farmaci opportunamente somministrati. E in una pagina Stangerup racconta di un esperimento in cui dei topi di laboratorio vengono trattati molto bene e accuditi perché non manchino viveri, calore e possano stare lontano da qualunque tipo di pericolo. Anche loro cercano di scappare.

In questa «democrazia perfetta» dove l'obiettivo è «l'addomesticamento del popolo», Torben verso la fine del romanzo riesce comunque a trovare uno spiraglio di libertà. Nella sua mente. Perché, come scrive, «inutilmente hanno eliminato tutto ciò che poteva evocare mia moglie e manipolato documenti che mi proibivano di vedere. Edith era molto di più di una di quelle parole che facevano ogni giorno sparire dal vocabolario.

Non sarebbe mai finita nell'oblio finché lui rimaneva libero e poteva fare ciò che voleva, almeno fino al giorno in cui non avrebbe più resistito e sarebbero riusciti a imporgli la loro volontà, qualunque questa fosse».

@GianPaoloSerino

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