Cultura e Spettacoli

Do the demolition

Una donna muore. Il marito non la ama e non riesce a piangerla. Il marito inizia a demolire ogni frammento dell’abitazione in cui ha vissuto con lei. Questa è l’ipotesi di Demolition, nuovo film del pluripremiato regista canadese Jean-Marc Vallée. Un’educazione sentimentale attraverso la distruzione totale del feticcio è possibile. Questa è la tesi di Vallée. La storia dell’investitore Davis/Jake Gyllenhaal ne è la dimostrazione, almeno secondo Vallée.

Come un’antitesi deambulante alle teorie psicanalitiche freudiane sul trauma come esperienza dissociativa di blocco mnemonico, Davis attraverso l’esperienza emotivamente e fisicamente traumatica con cui perde la moglie intraprende una sorta di percorso della memoria dove ricostruisce non solo un sentimento della moglie, ma una conoscenza che sembrava essere andata persa durante gli anni di matrimonio. Ed è proprio nelle premesse, nella presentazione di quell’assenza di unione che Vallée (e il montatore Jay Glen) propongono una sintetica, didascalica e iper-ritmata descrizione di un (non)amore riuscendo a calare emotivamente lo spettatore, senza tralasciarne un’adeguata informazione riguardo dettaglie che poi ricorerranno nel resto del film.
Proprio dopo quest’incipit folgorante, inizia il lento e inesorabile processo di demolizione associativa che viene suggerito a Davis proprio dal personaggio che più di tutti gli altri cercherà di fermarne la deriva barbarica: il suocero e partner lavorativo Phil, interpretato dal sembre occhiaiuto Chris Cooper. Ed il pandemonio, tra mazzate a porte di cristallo, lastre di travertino ridotte a frattaglie e pareti abbattute, non fallisce nel tentativo di coinvolgere l’occhio dello spettatore che guarda invidioso la meticolosità con cui Gyllenhaal rimuove gli oggetti e gli spazi condivisi, senza rabbia né dolore, ma con lucida freddezza.
Una casa che come suggerisce l’etimologia del termine non è altro che la nicchia di un eco-sistema – (dal greco oikos (casa) – che finisce per coinvolgere un ambiente lavorativo che viene prima smontato accuratamente e poi abbandonato da Gyllenhaal. Una sorta di rivoluzione luddista anticonvenzionale che rinfresca echi di quella messa in atto dal duo Mendes-Spacey in American Beauty quasi due decenni fa. Anche la rivolta devastante di Gyllenhaal, infatti, gli permette di stabilire rapporti emotivi profondi, proprio come accadeva a Spacey, con individui che altrimenti non sarebbero potuti entrare nella sua orbita: la madre-operatrice servizio clienti-semifidanzata Karen Moreno/Naomi Watts e suo figlio-bowieinerba-gay-adolescente Chris/Judah Lewis.
Nel momento in cui le orbite anch’esse irregolari di Watts e Lewis vengono risucchiate in quella demolitrice ma solida di Gyllenhaal, la freschezza del film di Vallée sembra immediatamente cristallizzarsi come per preparare in un lento e naturale decorso il finale. La schizofrenia della prima parte si arena nel ripetersi dell’operazione demolitrice di Gyllenhaal che viene coadiuvata dai due nuovi compari, accumulando calcinacci e macerie che risparmiano simbolicamente solo la camera da letto dove Gyllenhaal e moglie condividevano l’unico momento di profonda intimità, ovvero un incrocio di sguardi addolciti che si scambiavano al mattino. Si aggiungono particolari scabrosi, episodi imbarazzanti, ma le presenze di Watts e figlio non sembrano rinsaldare la robustezza del film, ma paradossalmente con il loro accumulo ne soffocano le potenzialità eversive. Nonostante la scena del ballo urbano (che diventerà iconica per i seguaci del torsuto Jake). Finiamo di accompagnarlo nella sua precisa opera demolitrice di ricostruzione della moglie e del loro amore più per inerzia che per convinzione.
In effetti anche in American Beauty la scelta di una scaletta mitologica nella colonna sonora permetteva una coesione di sguardo e orecchie dello spettatore nel seguire la svolta irriverente del protagonista. Tuttavia, a differenza dei brani dei Guess Who o di Annie Lennox/Neil Young nel film di Mendes, Vallée devolve alle musiche dei Morning Jacket e di Sufjan Stevens una responsabilità che non riesce ad assecondare interamente con le immagini e le parole. Le note ci provano e a volte riescono come nel passo danzante qui sopra, però quando finiscono pare che i personaggi si arrestino con loro come in attesa del brano successivo.

E allora forse a Demolition bastava solo che Vallée aggiungesse un altro pezzo alla tracklist, un ultimo swing che facesse girare i bacini e le storie dei suoi personaggi: come on baby do the Demolition.

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