Forse nessuno avrebbe resistito, sapendo di quella donna in Hester Street. La donna che sapeva predire non semplicemente il futuro, bensì il giorno esatto della morte di una persona. Forse tutti avremmo fatto come i fratelli Gold: avremmo lasciato l'appartamento nel Lower East Side di Manhattan, saremmo usciti nell'afa soffocante di quell'estate del 1969, avremmo cercato l'indirizzo, salito le scale, bussato alla porta della rishika: e poi, come a turno è successo a Daniel, Klara, Simon e Varya avremmo ascoltato il verdetto, avremmo pianto, ci saremmo arrabbiati, saremmo scappati, saremmo ammutoliti. Non saremmo mai più stati gli stessi.
Forse qualcuno avrebbe fatto diversamente, non avrebbe voluto sapere. Una conoscenza così luminosa da fare cadere nell'oscurità: un passo di troppo, come quello di Icaro. Ai fratelli Gold, che all'epoca hanno fra i 13 e i 7 anni (Varya è la maggiore, Simon il più piccolo, ed è bellissimo) succede così. Sono Gli Immortalisti: figli di un mondo al limite fra realtà e magia, un mondo in cui la realtà non basta, e in cui la mente, a volte, può diventare un nemico invincibile. La loro storia è raccontata da una giovane scrittrice americana, Chloe Benjamin, che è nata a San Francisco (che con New York è l'altra città protagonista del libro) e oggi vive in Wisconsin. Gli Immortalisti (Rizzoli, pagg. 436, euro 20) è il suo secondo romanzo e in America ha avuto grande successo, proprio per via della domanda apparentemente facile, ma in realtà non scansabile, che pone: che cosa faresti, sapendo qual è il giorno esatto in cui morirai?
L'unica cosa certa è che è difficile rispondere «niente». «Mentre era nell'appartamento della rishika, Varya era sicura che fosse una truffatrice, ma quando era tornata a casa la profezia si era fatta strada dentro di lei come un virus. Aveva visto succedere la stessa cosa ai suoi fratelli: era evidente negli sprint di Simon, negli scoppi di ira di Daniel, nel modo in cui Klara si estraniava, allontanandosi da loro». Per chiarire, Varya è la più razionale dei quattro: è una scienziata, ed è anche quella a cui la donna ha predetto la vita più lunga. Ottantotto anni. Non dovrebbe avere ansia. Ai suoi fratelli è andata meno bene: se lo sono confessato a vicenda una sera, dopo la morte del padre Saul. Klara era ancora la più sconvolta dalla profezia: trentun anni. E dire che quel giorno voleva a tutti i costi conoscere la donna e ne aveva percepito il carisma. Simon invece si era limitato a dire: «Giovane». La sua vita da omosessuale finalmente libero a San Francisco avrebbe pagato il prezzo di una morte fulminante per una malattia allora sconosciuta, «il cancro dei gay», l'Aids. Simon però non recrimina: se non fosse stato per la donna di Hester Street, dice, «probabilmente sarei ancora ad aspettare che la mia vita inizi». La conoscenza che toglie ogni paura, ogni freno: trasformare quella data certa, della fine che incombe, in una occasione per realizzare i propri sogni.
Ma non è detto. Quel giorno fissato per sempre nella mente può diventare una ossessione, come nel caso di Klara: innamorata della magia, vuole fare dell'illusionismo la sua carriera. Ci prova a San Francisco, spinta dal passato di sua nonna, omonima, fuggita dall'Ungheria ai primi del Novecento e diventata famosa per le Fauci della vita, un numero in cui si cala dall'alto appesa a una corda a cui è attaccata soltanto con i denti. Al suo primo spettacolo, Klara decide di ribattezzarlo «L'Immortalista». Decisa a diventare «un ponte» fra mondo reale e mondo magico, Klara non può scordare la donna di Hester Street. Nessuno può. Neanche Daniel, che pure ritiene siano tutte frottole. Era stato lui a trascinare i fratelli dalla rishika per gioco, per noia. In quell'estate newyorchese, tutta l'America era in movimento, tranne i piccoli Gold, confinati in casa mentre i genitori si occupavano dell'impresa di famiglia, una sartoria che li aveva trasformati da poveri emigrati ebrei in commercianti di successo. Forse, dice Chloe Benjamin, non si può decidere se credere o non credere. Varya, la più distaccata dei Gold, «sapeva che le storie avevano il potere di cambiare le cose: il passato e il futuro, persino il presente. Era stata agnostica fin dalla scuola di specializzazione, ma se c'era un caposaldo dell'ebraismo su cui era d'accordo era questo: il potere delle parole. Penetravano sotto le fessure delle porte e nelle serrature.
Si attaccavano agli individui e strisciavano attraverso le generazioni». La rishika conosce il potere delle parole e conosce le persone: le guarda, come in uno specchio, e «sa». Pochi, dice, sono quelli che riescono davvero a cambiare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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