Cultura e Spettacoli

Ecco le opere che ispirarono la "Commedia" di Dante

Un viaggio fra i mosaici, gli affreschi e le sculture che l'Alighieri utilizzò per dare forma alle sue terzine

Ecco le opere che ispirarono la "Commedia" di Dante

«Egregio maestro, mi domando stupito perché voi, che non avete uguali nell'arte di dipingere, facciate tanto belle le figure degli altri e così brutte, invece, le vostre». L'«egregio maestro» è Giotto, e il riferimento alle sue «figure» è ai suoi figli, ritenuti non proprio carini come angeli. Dunque la battuta sarebbe greve, offensiva, se non provenisse da un amico a tal punto intimo da permettersi di motteggiare in quel modo. Un carissimo amico di nome Dante e di cognome Alighieri. A narrare l'episodio che sarebbe avvenuto a Padova intorno al 1303 o 1304, mentre Giotto stava affrescando la Cappella degli Scrovegni, è Benvenuto da Imola (1330-1388) nel suo Comentum alla Commedia. Purtroppo il condizionale è d'obbligo: prove certe di rapporti diretti fra i due campioni della pittura e della letteratura non esistono.

Consoliamoci allora con un'altra scenetta, questa volta certificata al cento per cento, poiché farina del sacco proprio di Dante, nella Vita Nova: «In quello giorno io mi sedea in parte nella quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette. E mentre io disegnava, volsi gli occhi e vidi lungo me uomini alli quali si convenia di fare onore, e riguardavano quello che io facea. E secondo che mi fu detto poi, elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse. Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: altri era testé meco, perciò pensava. Onde, partiti costoro, ritornaimi alla mia opera, cioè del disegnare figure d'angeli». Ovviamente «lei» è Beatrice. Meno ovvio è dire che il sommo poeta, pur non essendo altrettanto sommo nel campo delle arti grafiche, tuttavia delle relative tecniche s'intendeva, e molto, come confermano numerosi riferimenti nelle sue opere. Ma soprattutto sapeva che l'arte, come la natura, sa «Pigliare occhi, per aver la mente». La citazione da Paradiso XXVII è il titolo di un intenso saggio di Laura Pasquini (Carocci, pagg. 285, euro 24): un viaggio che ripercorre quello dell'Alighieri, soffermandosi sui punti in cui è possibile individuare un collegamento fra le parole di Dante e le immagini che gliele hanno ispirate, che ne sono quindi, dice l'autrice, l'«ipotesto». L'operazione dantesca di ekphrasis, appunto il tradurre in parole l'immagine, è il navigatore satellitare del percorso che Laura Pasquini ci propone.

Firenze, Bologna, Verona, Treviso, Ravenna. Forse Roma, Padova, Assisi. Ecco, insieme a un'altra ipotesi molto suggestiva (e all'apparenza piuttosto solida) che citeremo alla fine, le città che hanno arricchito la «biblioteca interiore» di Dante, ecco i link della sua colossale e... Divina Wikimedia in terzine e canti e cantiche.

Colleghiamoci allora a un luogo ben preciso, partendo da Inferno XXI. L'arsenale di Venezia, con il caos di rumori, fumi, operai al lavoro, dovette apparire al poeta proprio come una bolgia, nei primissimi anni del Trecento. Ma poi ebbe occasione di riposare le stanche membra e di raccogliersi in meditazione sull'isola di Torcello, in Santa Maria Assunta, di fronte al mosaico del Giudizio universale, traendone spunto per altri versi infernali. E il volto trifronte di Lucifero? Eccolo lì, scolpito dai Vassalletto a Roma, in San Paolo fuori le Mura. Senza dimenticare il Diavolo di Coppo di Marcovaldo nel battistero di San Giovanni a Firenze, divoratore di anime.

Se l'Inferno, con i relativi patimenti per i suoi ospiti, nell'immaginario della cristianità era già presente da un'abbondante sequela di secoli, vivente l'Alighieri il Purgatorio era quasi una novità dell'ultim'ora. L'autrice ci ricorda infatti che «solo con il Concilio di Lione nel 1274 aveva ottenuto un reale suggello dogmatico». Nicola e Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio, protagonisti del rinnovamento dell'arte in funzione di un maggior contatto con la realtà fisica, fanno dunque al caso di Dante per rappresentare gli umili e i superbi di Purgatorio X. Questi ultimi, in particolare, appesantiti dalle loro colpe, li rivediamo anche nelle figure accovacciate, oberate dei capitelli in Santo Stefano a Bologna e nel telamone con gli occhi quasi fuori dalle orbite nella cattedrale di Verona. E nel canto successivo compare il maestro miniatore Oderisi da Gubbio «che il poeta potrebbe aver conosciuto durante il suo primo soggiorno bolognese». Oltre ai famosi versi «Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido» che a noi qui valgono, absit iniuria verbis, come didascalia all'Isacco che respinge Esaù nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi, opera del Maestro delle storie di Isacco, cioè proprio del giovane Giotto.

Se il verbo che si addice all'Inferno è «patire» e quello per il Purgatorio è «sentire», il Paradiso è il regno del «figurare», dice giustamente l'autrice. Nel senso che Dante, impegnato a «dire l'indicibile», s'impegna più a fondo, salendo in alto, per «aver la mente» del lettore. Gli vengono in soccorso alcune lussureggianti illustrazioni di vari manoscritti del Roman de la Rose. Il Paradiso è il ritorno alla vita vera, anche se sublimata in una dimensione superiore. Occorre molta luce, dunque. E luce sia, proveniente dai radiosi mosaici che Ravenna, suo ricetto e asilo, gli mostra. Sant'Apollinare Nuovo, battistero degli Ortodossi, battistero degli Ariani, Sant'Apollinare in Classe, mausoleo di Galla Placidia... Un trionfo di immagini in cui le tessere («speculi») catturano e reiterano l'abbagliante luminosità. Del resto, ricorda Laura Pasquini, «gli ultimi tredici canti della Commedia sono quelli che si possono considerare certamente composti a Ravenna».

Tuttavia, poco prima dell'epilogo, ecco la suggestiva ipotesi che citavamo. «Ne la profonda e chiara sussistenza/ de l'alto lume parvermi tre giri/ di tre colori e d'una contenenza;/ e l'un da l'altro come iri da iri/ parea reflesso, e 'l terzo parea foco/ che quinci e quindi igualmente si spiri». Potremmo essere tra «Lerice e Turbìa» (Purgatorio III), cioè in Liguria, dove il poeta fu nel 1306 per mediare fra il vescovo di Luni e Franceschino Malaspina. Più precisamente, nel battistero di Albenga, a osservare il cristogramma. La «biblioteca interiore» di Dante si chiude qui.

Oltre c'è soltanto un indicibile che non può esser detto.

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