Non c'è dubbio che il populismo rappresenti una sfida per la democrazia, e per di più una sfida in duplice senso. Costituisce una minaccia alla democrazia rappresentativa, l'unica che abbiamo conosciuto in Occidente in questi due ultimi secoli. Al contempo, le offre anche un'opportunità, aiutandola a prendere coscienza di quelle insufficienze e contraddizioni in cui è impaniata ormai da alcuni decenni. In tal senso, la democrazia viene sollecitata a riformarsi, se non proprio a rifondarsi.
Assodato che il populismo è un esito e insieme un fattore della crisi della democrazia, resta da capire se questa crisi sia accidentale o strutturale, se abbia profonde radici nella sua storia, o se questa ultima versione presenti tratti di originalità.
Va detto innanzitutto che il populismo non ha un carattere di occasionalità o di casualità. È anzi una presenza strutturale della democrazia. Il suo (questo è il pensiero di fondo) è un rifiuto pregiudiziale dell'istituto della delega, il mandato rilasciato agli eletti che espropria l'elettore e sequestra la volontà popolare per ben due volte. Primo, perché consegna a un ceto di politici professionisti il potere sovrano. Secondo, perché finisce coll'affidare ai partiti un potere di intermediazione ulteriormente distorsivo. «L'elezione - ha detto bene Raffaele Simone - è un lasciapassare incondizionato per la più ampia discrezionalità di comportamenti da parte degli eletti».
Il populismo va considerato insomma parte integrante della democrazia. È come un fiume carsico che resta per lo più sommerso, ma che emerge talora in modo tumultuoso. Esercita quindi stabilmente un condizionamento della vita politica: o indirettamente come minaccia o direttamente come protesta, quando non dà vita a un vero e proprio partito. Una componente populista si annida inoltre in molte culture politiche, a vario titolo diffidenti verso la democrazia delegata, come lo sono state quella socialista e quella cattolica. Per emergere, il populismo ha bisogno di una crisi di sistema, ossia di una situazione nella quale la democrazia accusi forti difficoltà a soddisfare le istanze emergenti dalla società.
Venendo ai tempi nostri, si può affermare che il populismo abbia trovato una congiuntura particolarmente favorevole. I fattori che lo propiziano sono molti. Sono i processi d'integrazione globale che erodono la base del benessere e quindi anche del consenso delle democrazie occidentali. E poi, la perdita di sovranità degli Stati nazionali a favore di istituzioni pubbliche e corporations private che calpestano la sovranità popolare con una cosiddetta «politica dell'ABC» (Agencies, Boards, Commissions). Inoltre, il senso di abbandono che prova il cittadino di fronte ad una politica impotente. Potremmo aggiungere: il «tradimento delle élite», ossia la loro incapacità - o addirittura indisponibilità - a fungere da classe dirigente, proiettate come sono a integrarsi nel mercato mondiale.
Infine - last but not least - l'affermazione di una società individualistica, soggettivistica, narcisistica, relativistica. È un processo innestato dalla crisi delle ideologie e dei partiti. La loro scomparsa ha fatto emergere con forza - ha acutamente fatto notare Guido Mazzoni - «il lato inappartenente e narcisistico che è implicito nella rivendicazione dell'autonomia» individuale, divenuta ormai l'aspirazione dominante. Questa ha portato alla contestazione indistintamente di ogni autorità: culturale, sociale, politica, in nome della rivendicazione dei diritti soggettivi individuali. Il rifiuto di ogni identificazione ha prodotto la «fine di quei legami collettivi di cui i partiti moderni erano l'effetto e in parte la causa». È diventato difficile, se non impossibile, per il cittadino del XXI secolo credere in valori collettivi, ancor più costruire identità collettive.
C'è poi una specificità dell'Italia. Il nostro Paese ha fornito da sempre al populismo un habitat particolarmente favorevole. Esso partecipa di quel sentimento insieme di lontananza ed estraneità alla politica, la cosiddetta anti-politica, assai diffuso e tenace nella nostra vita pubblica. Questo sentimento si è nel tempo consolidato in una specifica cultura civica nazionale che ha incorporato come suo tratto saliente il disprezzo/rigetto della politica. A consolidarlo ha pesato la lunga dominazione straniera, quello che Machiavelli ha chiamato «il barbaro dominio». Il sequestro della sfera dei «pubblici affari» ha lasciato agli italiani solo la cura dei «negozi privati».
Tale deficit di legittimità della politica non è stato riassorbito nemmeno al momento della costruzione dello Stato e della nazione. Lo State Building e la Nation Building, due processi storici che altrove hanno contribuito in modo determinante a promuovere un processo di inclusione allargata e a forgiare un saldo sentimento di appartenenza, da noi non hanno funzionato a dovere. Non solo, non hanno sradicato il sentimento di estraneità alla politica. Non lo hanno nemmeno attenuato. Hanno contribuito viceversa a rafforzarlo ed estenderlo. Un ruolo non irrilevante nell'alimentare una suggestione genericamente populista è stato inoltre esercitato dalle culture politiche socialista e cattolica, a lungo scettiche o apertamente contrarie allo Stato unitario e alla democrazia parlamentare. Ne è seguita una lacerazione del tessuto connettivo che lega la comunità nazionale oltre, e al di sopra, delle articolazioni proprie della lotta politica.
Da ultimo, la nostra democrazia ha sofferto della scomparsa dei partiti cosiddetti d'integrazione di massa. Questi hanno occupato ininterrottamente, dalla caduta del fascismo fino al loro tracollo con Tangentopoli, il ruolo non solo di attori protagonisti della vita pubblica, ma addirittura di titolari di una legittimità predominante rispetto a quella riconosciuta allo Stato.
La crisi di questi partiti ha quindi equivalso alla crisi tout court della democrazia, ritrovatasi spoglia al contempo di un supporto vitale e di una credibilità in forma più grave che in altre nazioni occidentali. La riemersione del populismo nella vita democratica ha trovato un clima favorevole e non sembra ci siano prospettiva che torni a inabissarsi.
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