I venticinque minuti di applausi al Met di New York. La pioggia di fiori dai palchi della Scala. I trentamila dell'Arena di Verona in piedi e in pianto. Fu uno psico-dramma planetario, l'addio alle scene di Alessandra Ferri. Ma lei, l'acclamata etoile della Scala e dell'American Ballet Theatre, era stata coraggiosa. E drastica. «Mi ritiro ora che sono al vertice della fama e della forma». Un pas de adieu durato un anno: in tour mondiale per tutto il 2007, un tripudio infinito di lacrime e ovazioni. Fino a pochi mesi fa, fino al clamoroso annuncio. Alessandra Ferri torna a danzare. Il 28 giugno, per l'inaugurazione del Festival di Spoleto.
Molti non capirono la sua scelta. Molti la trovarono eccessiva. Tutti ne furono addolorati. E lei?
«Io ero stanca. Per questo mollai. Avevo dato il massimo, ottenuto tutti i risultati possibili: mai avrei potuto dare più di così. Dovevo fermarmi. Ma forse, inconsciamente, già sentivo che quello non era proprio un addio; era la chiusura di una fase. Così questa non è una rentrée; ma l'apertura di un nuovo capitolo».
Cominciava a segnare il passo? Avvertiva i primi sintomi del declino?
«Ancora oggi sono in un una forma strepitosa. Potrei ballare Giselle o Giulietta domani mattina. E poi ho solo cinquant'anni: Margot Fonteyn ha danzato fino a sessanta, Carla Fracci oltre i settanta... No: è proprio quel genere di spettacolo, quel tipo di ruoli, a non interessarmi più. La danza non è un modo di esprimersi? Ecco: oggi avverto il bisogno di esprimermi, e quindi di danzare, in un altro modo».
Come ha vissuto questi sette anni di stacco totale?
«Male. Ero come in lutto. Però serena: l'avevo deciso per occuparmi delle mie due bambine, ed è quello che ho fatto. Certo: il corpo si ribellava. È nato per danzare, non potevo più tenerlo fermo. Ora però sono un'altra Alessandra: non farò più il grande repertorio, ma ciò che corrisponderà meglio alla mia maturità».
Lei sa che alcuni scuoteranno la testa? Che altri diranno «non è più la Ferri di una volta»?
«Senta: tre mesi fa a New York ho visto in scena Mikhail Baryshnikov, sessantacinque primavere. Un'emozione assoluta. Compito dell'artista è raccogliere le emozioni del pubblico, e trasmetterle. Un artista resta artista per tutta la vita. Smette di esserlo solo quando non sa più trasmettere emozioni».
Da quali emozioni nasce, allora, «The piano upstairs», lo spettacolo che lei stessa ha ideato per Spoleto?
«Ci pensavo da anni. Si è sviluppato in me giorno per giorno. Sapevo che parola e danza sono due diversi linguaggi: uno più diretto, l'altro più profondo. Ho immaginato una coppia in crisi, che non riesce a comunicare. Lui, che è più concreto, cerca di farlo parlando; lei, che ha maggiore interiorità, danzando. Lui sarà l'attore inglese Bod Gaines, e reciterà testi appositamente scritti per me dal drammaturgo John Weidman. Lei sarò io, e danzerò mie coreografie su musiche di Arvo Part, John Cage, Philip Glass, Giovanni Allevi, Fabrizio Ferri. Il tutto con le scene di Gianni Quaranta e la regia di Giorgio Ferrara».
Un'altra novità, dunque: «The piano upstairs» segnerà anche il suo debutto da coreografa.
«Nella mia carriera ho avuto il privilegio di lavorare con i più grandi, i sommi. Esperienze che lasciano il segno; che se sei un minimo ricettiva, ti trasformano. Ma non sono tanto presuntuosa da pensare di mettermi a competere con loro. Non cerco "un nuovo linguaggio coreografico". Anche qui tento, molto naturalmente, di corrispondere alle mie nuove necessità espressive».
Lo spettacolo di Spoleto è solo un esperimento? O il primo passo di una nuova carriera?
«Ho già compiuto il secondo passo, in questa mia nuova carriera.
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