Karl Marx visse e operò in un altro mondo: quando per spostarsi da un capo all'altro dell'Europa ci volevano varie giornate e il globo terracqueo era dominato dall'Impero britannico. Oggi perfino l'Unione sovietica è qualcosa di remoto e più di un quarto di secolo ci separa dal crollo del muro di Berlino. Eppure il marxismo è più vivo che mai, se si considera che il partito laburista è finito nelle mani di Jeremy Corbyn, nelle primarie democratiche Bernie Sanders ha il vento in poppa e nell'Europa continentale spopolano Podemos e Syriza.Come è possibile tutto questo?Quanti conoscono il pensiero marxiano sanno come, sul piano della teoria, questa egemonia è più apparente che reale. La nuova sinistra è lontana mille miglia dalle tesi del filosofo di Treviri: che non avrebbe mai accettato quel miscuglio di ecologismo, pauperismo e terzomondismo che domina i movimenti antagonisti e le nuove leadership politiche ed economiche. E in effetti c'è chi guarda a Michel Foucault e chi a Leonard Boff, chi a Jacques Lacan e chi a Vandana Shiva, chi a Serge Latouche e chi a Frantz Fanon.Questo insieme incoerente di tesi trova comunque il proprio elemento comune nel rigetto delle libertà individuali. In tal senso, il riferimento a Marx continua a essere importante poiché egli simboleggia il rigetto dei pilastri fondamentali della società liberale: proprietà privata, ordine economico non regolato, diritto contrattuale. Se ci si riferisce al marxismo è perché in tale tradizione si rinviene quell'insieme di ossessioni anticapitalistiche che dominano la mente e il cuore di tanti: specialmente nelle classi dirigenti e nel mondo intellettuale. Qualche anno fa è capitato più volte di sentire l'allora ministro Giulio Tremonti citare Marx con ammirazione, ma oggi è la vuota retorica dell'attuale pontefice che incarna al meglio il declino di quella civiltà di tradizione europea che, pur tra tanti errori, ha cercato di valorizzare la libertà degli individui e ha provato difendere al massimo la loro dignità.Fino a oggi società e cultura sono vissute in un difficile equilibrio: la psicologia sociale parla, al riguardo, di dissonanza cognitiva. Si pensa una cosa e se ne fa un'altra: come quando si passa la settimana a criticare la società dei consumi e poi, nei fine settimana, ci si butta nei centri commerciali in cerca dell'ultimo telefonino. Prima o dopo, però, è necessario che la tensione tra quello che facciamo e quello che pensiamo trovi una qualche soluzione: e così oggi stiamo progressivamente smantellando quell'economia di mercato che, pure, ha tanto favorito lo sviluppo della civiltà.A lungo siamo sopravvissuti grazie ai nostri comportamenti fondamentalmente razionali e nonostante le nostre idee essenzialmente irrazionali, ma ora i nodi vengono al pettine e le ideologie a lungo coltivate da università, giornali e case editrici stanno producendo i loro effetti.Lo si vede, in particolare, dai comportamenti dell'establishment, che è sempre più incline ad assecondare ogni avversione ai diritti di proprietà. Mentre tra la gente comune è talora possibile riconoscere una qualche affezione per i valori liberali, non è così tra gli intellettuali e ai piani alti della società. E in questo senso è utile osservare l'interazione tra un potere politico (con forti ramificazioni nell'economia) che si dilata sempre più e un universo antagonista che comunque è eternamente insoddisfatto, teso a denunciare l'immaginario liberismo selvaggio di regimi che in verità tassano a più non posso, regolano tutto, perseguono logiche ridistributive.L'interventismo dei banchieri centrali e dei governi non è mai sufficiente per quanti guardano alle società contemporanee come a universi dominati dall'anarchia di mercato e s'innamorano delle analisi di un Thomas Piketty, a lungo in cima alle classiche delle vendite della saggistica: anche negli Stati Uniti. Mai perché mai un libro come Le Capital au XXI siècle ha riscosso tanta attenzione? La spiegazione sta nel fatto che ha pretesto di collegare l'aumento (vero o falso che sia) delle diseguaglianze e la crisi economica. Di fatto, questo è servito da piedistallo alla proposta di una tassa globale sul capitale: con la volontà di ricondurre tutta la ricchezza e l'intera umanità sotto il controllo di un unico ceto politico.Queste tesi hanno successo perché l'Occidente disprezza la libertà: specie nelle sue classi dirigenti. La modestia delle analisi sviluppate da un Piketty non avrebbe suscitato tanto interesse se lo sfondo non fosse quello di una società che nega le propria fondamenta e fa tutto il possibile per eliminare ogni spazio di mercato, concorrenza, responsabilità. E che vede un'alleanza sempre più solida tra lo statalismo (parassitario) delle élite e le spinte rivoluzionarie dei gruppi antagonisti.Intervistato nel 2006 dal New York Times, il finanziere Warren Buffett disse: «Siamo nel mezzo di una lotta di classe, senza dubbio, ma è la mia classe, i ricchi, che sta facendo la guerra e che la sta vincendo». Buffett impiegò questo linguaggio esplicitamente marxiano. E poiché non si può credere che questo importante businessman fosse ignaro di quanto diceva, usando quella terminologia egli in qualche modo riconosceva che i nemici del mercato hanno ragione. Perché parlare di lotta di classe tra ricchi e poveri, capitalisti e no, significa pensare che nei rapporti di lavoro è in atto una relazione di dominio, alienazione, sfruttamento.Oggi i capitalisti dovrebbero battersi per una riduzione dell'intervento pubblico e, di conseguenza, per una cancellazione dei vantaggi che traggono da spesa pubblica e regolazione, ma per lo più essi sono i figli del nostro tempo e sanno giocare soltanto a queste regole. Non sorprende che guardino più a Marx che ad Adam Smith.
Quel che resta della società libera, allora, forse non sarà spazzato via dai proletari in armi, ma da politici, finanzieri e intellettuali, protagonisti di una nefasta alleanza tra idee sbagliate e interessi parassitari.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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