Una regola non scritta dell'editoria recita che una grande maison - Adelphi eccetto - deve portare il nome del fondatore. Mondadori, Rusconi, Rizzoli, Longanesi.
Neri Pozza (1912-88), editore per granitica volontà e scultore/incisore/scrittore per naturale predisposizione, aprì la sua casa editrice 70 anni fa esatti. Era il 1946. E il fatto che, tra tutte le attività che si potevano erigere sopra le macerie lasciate dalla guerra, ne scegliesse una che aveva a che fare con strane idee «di arte e di poesia», la dice lunga sul tipo. Vicentino, cocciuto, intelligente, umorale, ambizioso.
La storia personale e la parabola professionale di Neri Pozza sono un pezzo importante dell'editoria italiana del Novecento. Le illusioni e le delusioni che hanno accompagnato il suo lavoro, così come i grandi successi e gli inevitabili fallimenti del suo catalogo, sono le illusioni, le delusioni, i bestseller e i titoli perduti di tanti che, come lui, hanno creduto nei libri come fattore di cultura, ma anche come prodotto commerciale. Quella di Neri Pozza - il quale per anni guadagnerà solo grazie alla scultura, poiché per fare fruttare i libri ci vuole tempo - è una storia a suo modo esemplare. Insegna moltissimo, ancora oggi, su cosa sono e come si fanno i libri. La lezione ce la consegna una raccolta di scritti dell'Editore (in parte conosciuti, altri rari, alcuni inediti) cui la sua «casa» ha dato il titolo Vita da editore (Neri Pozza, pagg. 336, euro 17,50). Tra le tante pagine lasciate da Neri Pozza, il suo vecchio amico Angelo Colla ha selezionato, da curatore, le riflessioni sui libri realizzati o anche solo ideati fino alla sua morte, nel 1988; un pugno di lettere, battute a macchina fra gli ultimi anni Quaranta e gli anni Sessanta, strapiene di indicazioni e consigli agli autori, ai quali parlava da «artista a artista», per migliorare le loro opere (Neri Pozza era micidiale nello spiegare ai vari Buzzati, al Carlo «Emilione» Gadda, a Soavi... cosa dovevano fare per scrivere libri più consoni alla loro natura, e in fondo al suo gusto); e una galleria di ritratti, da Bontempelli ad Alvaro, dal grecista Valgimigli al coltissimo bibliotecario Manlio Dazzi (il suo mancato «consigliere ideale»...).
La Vita da editore suggerisce molte cose sul lavoro di fare libri, e anche su un Paese, oggi come ieri, in cui i libri sono un prodotto residuale. Esempi? Eccone alcuni.
Già Neri Pozza, sfatando un luogo comune che vuole l'Italia imbarbarita di recente, si doleva della società del suo tempo «pigra, negligente, distratta della vita dello spirito». E addirittura nel 1949, in un'irosa lettera all'amicissimo Antonio Barolini si chiede: «Che cosa ne fa il nostro tempo di poesia? Gli volta le spalle».
Neri Pozza soprattutto ricorda un principio senza tempo, fondamentale. Ossia che lo scrittore degno di tale nome deve evitare l'avidità del successo mondano e la brama di denaro (ahi ahi ahi, bestselleristi e presenzialisti al tempo di BookCity e fèstival...), tutte cose che fanno trascurare il lavoro paziente sulla scrittura.
Neri Pozza, poi, è la testimonianza/dimostrazione di come un editore debba stare col fiato sul collo, quasi con le urla nelle orecchie, degli autori. Al poeta Eugenio Ferdinando Palmieri (1903-68), siamo ancora nel '49, scrive: «Lei non vorrà dire che io sono un editore, sic et simpliciter, che prende un autore e lo stampa. Io sono uno sfruttatore degli autori, nel senso morale, accanitissimo». Cosa significa? Che li deve correggere, spronare, rimproverare quando è il caso. Per farli crescere. Se necessario, quando il loro libro non è il libro «giusto» per la sua casa editrice, o quando scelgono di passare alla concorrenza, Pozza li indirizza verso l'approdo migliore, pur con gelosia e l'orgoglio di averli scoperti. Lo fa con Alberto Denti di Pirajno, cui consiglia quel galantuomo di Vallecchi (e di lasciare stare la Sansoni, «infeudata con i preti»). E lo fa con Goffredo Parise, il suo figlioccio, quando, con dolore, lo sollecita ad andare da Garzanti...
E proposito dell'uno e dell'altro.
Il nome Denti di Pirajno (1886-1968), medico che sapeva curare il mal d'Africa e gourmet che insegnava come condire educatamente un'insalata (autore del primo vendutissimo libro delle avventure di un gastronomo stampato in Italia nel dopoguerra), ci ricorda che la «moda», e il successo in libreria, dei titoli di cucina è storia vecchia. Mentre quello di Parise, lanciato da Pozza con Il ragazzo morto e le comete nel '51, dimostra quale visionarietà debba avere l'editore, prima ancora dello scrittore, quando c'è da scorgere il romanzo del futuro.
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