Cultura e Spettacoli

La fede totale della O'Connor che pregava lavando per terra

Nel «Diario» della scrittrice americana, allora studentessa brillante, l'inquietudine religiosa e il rapporto molto «personale» con Dio

La fede totale della O'Connor che pregava lavando per terra

A ventun'anni Flannery O'Connor non era ancora la grande scrittrice che conosciamo.

Chi la frequenta da molto tempo conosce però anche la fragilità, la vibratilità che appare sotto il velo di una certezza fin troppo esibita (ma questo è il repertorio teatrale di qualunque scrittore). Queste debolezze viceversa a ventun anni erano già tutte presenti. Per edificare la sua cattedrale, il suo altare (dove consumò il corpo come l'anima) Flannery dovette produrre prima la materia per edificarla, fondere i molti materiali eterogenei - da cui nasce quella cosa irripetibile, quel numero primo che è uno scrittore - in un'unica lega, nuova, mai vista.

Quando scrisse questo Diario di preghiera (Bompiani, traduzione di E. Buia e A. Rutt, pagg. 110, euro 11), ossia a ventun anni, Flannery O'Connor era una collegiale carina, molto consapevole della propria intelligenza, dal carattere non facile, non certo un mostro di bontà, dalla religiosità inquieta ma di un'inquietudine speciale, diversa dalle altre: un'inquietudine sorta e alimentata dal suo stesso cattolicesimo.

Molte sue dichiarazioni sono passate, in seguito, nel repertorio delle massime (o nello sciocchezzaio) della letteratura: che un cristiano non può essere niente di meno di un artista, o che la ragione per cui scrive è che le riesce bene, e altre simili. Sciocchezze, forse, ma in ogni caso cattoliche, e qui sta il punto. Nel Diario di preghiera a dire il vero le sciocchezze sono davvero poche. Flannery desidera dedicarsi tutta a Dio, quindi anche nella scrittura: gli chiede che «i principi cristiani pervadano la mia scrittura» e che «i miei scritti (pubblicati) siano numerosi abbastanza per diffonderli».

La ragazza non ha molta stima del diario che sta tenendo. Sente che l'«ombra del mio io» può diventare un ingombro tra il proprio desiderio e Dio, e lo prega: «Aiutami a farmi da parte». Lo stesso diario che sta tenendo le appare talvolta niente più che una farsa, e grida: «Quanto siamo stupide noi persone finché Tu non ci dai qualcosa». Non basta essere cattolici o credere in Dio: Flannery sa che tutto questo non conduce a un grammo di salvezza finché Dio non interviene concretamente, nel tempo e nello spazio, per dare «qualcosa».

Sente di non essere in grado di pregare davvero, e lo dice spesso. In realtà la sua preghiera è profonda e unica. «(...) Eppure in qualche momento insulso quando magari sto pensando alla cera per pavimenti o alle uova di piccione, l'inizio di una bella preghiera può salire dal mio subconscio e portarmi a scrivere qualcosa di elevato». In quella cera per pavimenti e in quelle uova di piccione c'è, si può dire, tutta Flannery - ma anche, oso dire, tutto il cattolicesimo. Sia la letteratura sia il cristianesimo sono, in effetti, una questione di cera per pavimenti e uova di piccione.

A Dio non piacciono le preghiere generiche. Il «fa' di me ciò che tu vuoi» è bello, ma non è in cima alle preferenze di Dio in fatto di preghiera. «Petitio decentium a Deo», così Tommaso D'Aquino definisce la preghiera, ed è la più bella che si possa immaginare. Flannery (grande lettrice di Tommaso per tutta la sua breve vita) chiede a Dio tante cose decenti, come di diventare una brava scrittrice. Una sera sentiamo il suo animo più sereno: Flannery ha finalmente una storia da raccontare. «Mi hai dato una storia», dice. È l'idea di Dio che colpisce: Dio è una persona reale, con cui si ha un rapporto reale. Continuo a pensare che a lei il cristianesimo interessi assai poco, perché il cristianesimo non è una persona reale, ma solo una religione. Del resto. Siamo così sicuri che Dio sia una faccenda «religiosa»? Io trovo la cosa vomitevole. Anche Eichmann diceva che la morte «è un fatto medico». Non vedo la differenza. Per la O'Connor non sarà mai così. Dio è quello che, in una precisa ora del giorno, le ha dato una storia. Poi Gli chiede una cosa strana: «Per favore, non costringermi a scartare la storia perché viene fuori che è più sbagliata che giusta - o del tutto sbagliata».

Entriamo nel cuore, qui, di un enorme conflitto. Flannery è una grande scrittrice perché è grande il suo conflitto. Dio dona storie ma sono storie imperfette, e va bene così: è compito dello scrittore scoprire che sono le sole interessanti. Ma lo scrittore cerca storie perfette, storie che brillino di luce propria, senza che un'altra luce - un pensiero, una passione, Dio, oppure uno sbaglio - le cada addosso.

Qui sta il dilemma. Lo scrittore riceve da Dio un dono che tende continuamente a disarcionarlo dalla fede in Lui. Perciò Flannery in seguito definirà la letteratura «territorio del diavolo». Essa è infatti quel territorio dove noi, per quanto religiosi, sperimentiamo la nostra profonda natura di lupi: insaziabili «di biscotti ai cereali e di pensieri erotici».

Che sono (tutti e due, ma soprattutto i pensieri erotici) la quintessenza stessa della letteratura, il suo lato nero e indelebile.

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