Cultura e Spettacoli

Il Festival di Venezia si apre con "Lacci" di Daniele Luchetti

Un grande cast italiano per raccontare trent'anni di angherie matrimoniali. Un film che conquista quando abbandona la teatralità drammatica e sposa una consapevolezza sarcastica

Il Festival di Venezia si apre con "Lacci" di Daniele Luchetti

La 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre) ha avuto come film d'apertura "Lacci" di Daniele Luchetti.

Siamo a Napoli, negli anni 80. Aldo e Vanda (Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher), marito e moglie, hanno due bambini, Sandro e Anna. Quando l'uomo si innamora della giovane Lidia, il matrimonio va in crisi. Trent’anni dopo, però, troviamo i protagonisti (stavolta interpretati da Laura Morante e da Silvio Orlando) ancora sposati e con i figli ormai grandi (Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini).

Tratto dall'omonimo romanzo di Domenico Starnone e già portato in scena a teatro da Silvio Orlando, "Lacci" segue la storia di quella che è una famiglia, se non disfunzionale, di sicuro infelice. Dapprima il racconto ha un'amarezza dolente, in itinere sfodera un tocco ironico. Si passa quindi dal sentirsi soffocati come i protagonisti a scoprire come sia liberatorio smascherare un ordine fasullo e trasformarlo nel disordine reale che cerca di nascondere. La terza parte, quella che vede in scena i figli, è una chiusura del cerchio catartica che sembra quasi regalare brio in maniera retroattiva all'intero film.

La caratterizzazione dei coniugi emerge nelle definizioni sprezzanti con le quali si colpiscono a vicenda e che contengono la loro buona dose di verità. Lui è un uomo passivo, di quelli che non hanno un solo momento di vera rabbia in tutta la vita ma che sfogano i cattivi sentimenti per vie traverse, e che diventano marito, padre e poi adultero "perché usa così". Lei è di una pesantezza che fa mancare l'aria, del resto "è difficile soffrire in modo simpatico".

La sensazione di prigionia che avvolge questa famiglia arriva al pubblico, afflitto dal trovarsi al cospetto d'infinite discussioni dalla pedanteria avvelenata. E' un bene che in un paio di occasioni le parole siano silenziate dal fatto che si osservi la litigata da dietro un vetro, ora quello di una sala di registrazione, ora quello del finestrino di un'auto.

Scegliere di essere fedele al proprio istinto per Aldo equivale a fuggire dalla moglie, per Vanda a fare di tutto per tenere in ostaggio il marito. La soluzione avrà il sapore rancoroso di quei compromessi che condannano tutti (figli compresi) al giogo eterno, perché frutto di scelte viziate da un malinteso senso del dovere e dell'amore.

"Lacci" ha il vezzo divertente di giocare, in almeno due occasioni, con le parole. Il titolo allude sia alle stringhe delle scarpe sia ai legami sentimentali e questi due significati confluiscono nella scena spartiacque del bar, in cui il padre viene riallacciato alle proprie responsabilità affettive proprio tramite la complicità del gesto di allacciarsi le calzature con la progenie. Gustoso poi il nome del gatto, che diverrà oggetto di disputa quando si scoprirà che Labes, diminutivo di "la bestia", in latino significa "rovina". L'ambiguità fa bella mostra di sé, paradossalmente, anche nel salotto di rappresentanza, sotto forma di una scatola segreta che a prima vista è solo un bell'oggetto.

Genitori e figli, chi prima e chi dopo, si trovano a fare i conti col rancore, non solo eterodiretto, consci che "ognuno ci ha messo del suo" affinché il vincolo familiare somigliasse a filo spinato.

"Per stare assieme bisogna parlare poco, l'indispensabile, e tacere tanto", altrimenti può voler dire torturarsi reciprocamente per tutta la vita. "Lacci" guarda a quei matrimoni trentennali la cui longevità non ha tanto a che fare con l'amore, quanto con un'insana volontà di giocare alla vittima e al carnefice a fasi alterne. Ci sono compagni di sventura che si consegnano anima e corpo a un'infelicità borghese anziché sciogliere l'invisibile senso di appartenenza che li attanaglia. Sono i casi in cui i pochi momenti di gioia liberatoria vissuti in clandestinità diventano polaroid datate da custodire di nascosto.

Forse è tutto in quel "le cose vanno dimenticate" che pronuncia il figlio nel finale.

Peccato che il mondo si divida soltanto tra chi ammette di non riuscire a farlo e chi finge di sì.

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