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Il "Fidelio" che oscilla tra Ragione e Male è un inno alla speranza

L'immersione negli inferi del carcere si risolve alla fine nel trionfo della libertà. Così il genio di Beethoven ci regala il suo attestato di fiducia nell'umanità

Un momento del Fidelio che aprirà la stagione della Scala di Milano domenica prossima
Un momento del Fidelio che aprirà la stagione della Scala di Milano domenica prossima

«L'intera opera mi appare come un miracolo. Mi sembra come l'avesse plasmata un uomo che, anelante, aspiri lottando verso un che di estraneo, verso una divina bellezza, la cui essenza egli solo intuisce, ma non può afferrare». Il giudizio, sintesi di quanto l'ascolto del Fidelio , capolavoro di Ludwig van Beethoven, lascia nello spettatore, risale a un giornalista tedesco del 1826. Dobbiamo la citazione a un denso e illuminante articolo di Anselm Gerhard, fruibile nel programma di sala dell'opera che aprirà stasera la stagione della Scala. Si è detto della tormentata gestazione (1805-14) che portò alla definitiva terza versione, più stringata e decantata; delle difficoltà vocali e interpretative riservate alla coppia protagonista (Leonore-Florestan, vedi la pagina a fianco); dello stretto legame fra momento storico e messa in scena.

Non è inutile ricordare alcune delle parti più originali di questo unicum del teatro in musica. Gerhard elegge a simbolo della «drammaturgia dell'urgenza» del Fidelio uno dei punti più alti dell'opera, quando nel finale Leonore, togliendo le catene al marito, esclama «O Dio, quale istante», sopra una melodia sublime dell'oboe. Un passo presente in tutte e tre le versioni, e genialmente recuperato dalla giovanile cantata in morte di Giuseppe II, in cui Beethoven lodava le illuminate riforme giuseppine. L'autocitazione celebra l'attimo formidabile, atteso fin dall'inizio, in cui l'amor coniugale si compie. Nell'opera non mancano i richiami all'urgenza del momento , allo stringere del tempo, contraddistinti da veementi accelerazioni drammatiche. Così come, per contrasto, ricevono rilievo gli istanti opposti, oasi di rarefatta sospensione temporale.

All'inizio, dopo i primi numeri, giocosi e brillanti, in tono di commedia borghese, apprendiamo che Marzelline, figlia del carceriere Rocco, si è innamorata del nuovo garzone Fidelio (falso nome in cui si cela Leonore in cerca del marito incarcerato). Le pulsioni amorose si imbrogliano e un improvviso Quartetto in canone ferma il tempo. Ognuno canta sottovoce la melodia degli altri, esprimendo però sentimenti accorati e diversi: Marzelline la sicurezza di essere amata; Fidelio un tormentoso imbarazzo; Rocco, bonario, benedice la nuova coppia; il di lei amoroso Jaquino freme di gelosia. Nel primo atto la temperatura drammatica si eleva soprattutto con l'arrivo del malvagio direttore del carcere, Don Pizarro, ossessionato dall'istante della vendetta, che sfoga in un'aria di furore truce e violenta, impartendo poi, nel seguente duetto, sanguinarie disposizioni allo sventurato Rocco. Più avanti, dopo il monologo-aria di Leonore, un'altra stasi straordinaria sorprende l'ascoltatore. I prigionieri escono alla luce, grazie all'umanità di Rocco il quale contravviene alle consegne del direttore. Una sortita introdotta da accordi dell'orchestra torpidi e claustrofobici, ai quali fanno seguito spirali di fagotti e clarinetti a disegnare il movimento dei prigionieri finalmente all'aria aperta. Un mirabile inno alla vita, punteggiato dagli oscuri richiami al «carcere», da pronunciarsi a fior di labbra, coll'incertezza di chi è stato a lungo segregato.

L'Autore, portato lo spettatore, nel primo atto, dalla luce della ragione alle tenebre del male, inverte, nel secondo atto, il percorso. Dal fondo della Caina umana - la segreta dove Florestan sta per essere trucidato - si sale, con la liberazione garantita dall'arrivo del ministro Don Fernando, nella Piazza d'armi del castello. Qui l'inno finale, maestoso e solenne, inneggia al giorno e all' ora benedetta, invitando, su parole prese dalla poesia di Schiller, colui che ha conquistato l'amore di una simile donna a unire la sua alla generale allegria.

La chiusa suggella, nel segno della speranza e della fratellanza universale, la riflessione «trascendentale di quello che era accaduto negli anni segnati dalla Rivoluzione francese». E Beethoven lo ha compiuto in modo personale, originale, unico.

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