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Film politici o commediole pure al cinema ci dividiamo

Film politici o commediole pure al cinema ci dividiamo

Burro o cannoni? Il cinema italiano pare fermo alla domanda mussoliniana, anno 1939, quando il duce, dal balcone di Piazza Venezia, chiese agli italiani se preferissero rinunciare alla guerra e avere qualcosa da spalmare sul pane, o se alzare il tiro e ottenere qualcosa in più della merenda. Com’è finita, lo certifica la Storia e, se non cambia rotta, l’industria cinematografica incapace di mediare tra due opposte risoluzioni, il burro delle commedie scioglievolissime e i cannoni degli opprimenti film-denuncia, è destinata al definitivo declino.
I manifesti parlano chiaro, adesso, mentre si fronteggiano in un conflitto all’ultimo spettatore film che, in palio, hanno gli incassi del primo finesettimana, quelli che ne decretano il destino in sala e la sopravvivenza dopo, tra sfruttamento televisivo e homevideo. E la battaglia si fa tanto più aspra, quanto più avanza la primavera gentile e, con essa, la voglia di gelato e d’aria aperta, di leggerezza e di libertà dal conosciuto. Soprattutto se il conosciuto rimanda a storie corrusche di decadi passate. Così il fondo scuro del cinema nostrano s’intride ancora di Feltrinelli e Pasolini, stragi di stato e di polizia evocati un po’ per fiction, un po’ per non morire: lo spirito del tempo quale farfalla inchiodata sullo schermo da un entomologo fissato con un certo tipo di ali.
Mai come prima di Pasqua il Belpaese si divide: di qua la valigetta nera con bomba di Romanzo di una strage, una nuvola di fumo sullo sfondo d’un poster anni Settanta; di là i sorrisi forzati dei forzati della risata in Buona giornata, stereotipati come negli ingenui Sessanta. Un altro dramma politico di Marco Tullio Giordana, incentrato sulla strage di Piazza Fontana - 12 dicembre 1969 ora 16.37 - contro l’ennesima commedia all’italiana dei fratelli Vanzina, con l’usato sicuro targato Banfi e De Sica.
Poco più distante, tante volte, tra uova di cioccolata e mandorli in fiore, lo spettatore si allentasse un po’, un altro avvertimento si profila, porpora ematica su nero: «Diaz. Non pulite questo sangue». Da metà aprile, la denuncia di Daniele Vicari sul G8 di Genova, nel 2001, non quello delle devastazioni e dei saccheggi black-bloc, ma quello della «macelleria messicana» dei poliziotti, stenderà un drappo buio. Per tenere desta l’attenzione, Domenico Procacci, produttore di Diaz, all’anteprima nazionale genovese ha spiegato come, in realtà, lui volesse partire da un film su Carlo Giuliani, il ragazzo con l’estintore, ma poi Rai Cinema gli ha messo i bastoni tra le ruote e allora... Allora,il Sindacato Indipendente di Polizia è insorto («non ci facciamo giudicare da un produttore e da un regista»),ricordando che ci sono tre gradi di giudizio e che le sentenze vanno rispettate. E tutti a mettere le mani avanti, comunque: Giordana e Vicari a ribadire che non volevano provocare, semmai girare un film per far scoprire ai giovani cose che non sanno, mentre i Vanzina, più umilmente, hanno precisato che non volevano «fare Altman», semmai il Marchese del Grillo.
Sta di fatto che, nella disfida tra impegnati a oltranza e cazzari sine die, continua a mancare il prodotto medio di genere. Qualcosa di benfatto e non schierato o di qua, tra i perpetui arrabbiati, o di là, tra gli effimeri di passo. Qualcosa che, quando esce, sia in grado di accontentare la cosiddetta maggioranza silenziosa in cerca d’un prodotto intelligente, né facile né difficile, né di destra, né di sinistra: semplicemente convincente, magari anche attuale. Questo pubblico esiste e infatti ha convogliato 9.907.673 euro nelle casse di Quasi amici, commedia francese in giro da un mese, un’eternità dati i tempi, o 27.121.

513 euro in quelle di Benvenuti al Nord, ottimo calco da un originale francese. Titoli stagionali e titoli di mezzo, dunque, fanno epoca, ma sono rari. Al box office, domani, vinceranno i forzati delle stragi di stato o quelli del ridere per ridere?

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